Canto decimo. Dove si narra di come, salendo ancora, i due viaggiatori si trovino dentro la grande tipografia. E di come, tra libri illeggibili, la scrittrice ungherese Agota Kristòf insegni a disubbidire alla lingua, per dire la verità.
[Nureci, 13 agosto 2016 – Songhoy Blues]
Salivamo, come sempre. Ormai mi sembrava che il mio destino fosse salire, e che la vertigine fosse solo un ricordo lontano. Ogni viaggio ha il suo premio, ho pensato. Ogni abitudine la sua consolazione.
In quel preciso istante, ho sentito la scala animarsi di una vibrazione, come quella di un binario quando si avvicina il treno. Dall’alto giungeva il profumo inconfondibile di carta, inchiostro e colla, mentre la scala vibrava sempre di più, industriale, sempre più si faceva chiaro il rumore delle macchine, ticchettanti e armoniche come orologi. Cosa ci fa una tipografia dentro un circo, ho domandato. Taci e non fare domande sciocche, mi ha risposto l’Acrobata, guarda ogni cosa e goditi il sogno.
Ho obbedito. Ho smesso di fare domande e sono entrato nella grande fabbrica del libro.
I macchinari erano tutti al lavoro. Centinaia di apparecchi scandivano il tempo con i loro rumori ritmici, l’immensa officina era tutta insieme una grandiosa orchestra automatica, sotto i neon costantemente accesi.
Ho preso un libro a caso, aveva una copertina azzurra e lucida, il titolo indecifrabile, stampato a grandi lettere bianche. L’ho aperto: era scritto in una lingua per me oscura. Soltanto a pagina 27 sono riuscito a leggere, in mezzo a migliaia di altri caratteri enigmatici, “non ci sono jamais stelle ronda la moon di ottobre”. Era una frase senza senso, e l’ho rimesso al suo posto.
Gli altoparlanti diffondevano per tutta l’officina una musica dolce e insignificante.
La direzione ritiene che con la musica si lavori meglio, ha detto.
Mi guardava, da chissà quanto tempo, gli occhi stretti e lunghi di europea dell’est, il caschetto nero, la sigaretta in mano. Dimmi chi sei, le ho detto, e se tutto questo ha un senso.
Non è per nulla semplice rispondere a queste tue domande, mi ha risposto. Trascorriamo tutti quanti l’intera vita a cercare queste risposte. Chi sono e che senso ha tutto questo.
Il mondo mi ha chiamata Agota Kristòf, questo è abbastanza vero. Se io sia stata fino in fondo Agota Kristòf, questo è tutto un altro discorso. Ho usato la scrittura come strumento di sopravvivenza, e anche questo penso di poter dire che sia vero.
Ma chi usa la scrittura per sopravvivere indulge spesso alla menzogna, per consentirsi un minimo di libertà. E questo significa che molto di ciò che ho scritto forse è falso. Forse è falso persino ciò che ora ti dirò. Forse la verità si nasconde per tendere una trappola al suo contrario.
L’incidente che ha determinato la traiettoria della mia vita è stato decretato a un tavolo che immagino rosso, dentro un’innumerabile stanza del Cremlino. Per fuggire l’Armata, io ho perduto l’Ungheria. Quel giorno di fine novembre 1956 ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo, e al suo più grande tesoro: il suono materno della lingua.
Io, Agota che rinunciava a se stessa, sono diventata una straniera, una rifugiata, un orologio rotto, un’analfabeta. Anche adesso ti parlo dentro una lingua che non è la mia, ti parlo da dietro un vetro. E allora quale è la verità? Quello che si vede di là dal vetro, o il graffio sulla superficie? L’errore della vista, o la correzione dell’occhio che accomoda per non distrarsi? Chi può dire la verità, mentre si racconta? Quale voce può dire il suono esatto di un’altra voce?
Come si può farlo, dentro un’altra brutta lingua francese che mi è sempre stata ostile? Forse sono ingiusta, forse è tutta questione di essere affezionati a una durezza nostalgica di linguaggio ungaro, forse ti ho mentito tutto il tempo, fino all’ultimo.
La cosa certa è che avrei scritto, quindi avrei cercato la verità, in qualsiasi posto, e dentro qualsiasi lingua.
Così ha detto. Poi preso un libro dal nastro, l’ha aperto, Che lingua è, le ho chiesto. Nessuna, e tutte, mi ha risposto. Ogni libro è scritto in tutte le lingue, e in nessuna. O forse non c’è scritto niente, in queste pagine, e quelli che vediamo sono solo caratteri a caso: la tipografia esiste da sempre e per sempre, e nel suo tempo infinito, prima o poi scrive un frammento di Amleto, o della Metamorfosi, o della Trilogia della città di K.
Ha aperto con sicurezza un altro volume, e ha scandito
Dentro di me, penso di poter scrivere qualunque cosa, anche se è impossibile, e anche se non è vera. In genere mi accontento di scrivere nella testa. È più facile.
Nella testa tutto si srotola senza difficoltà. Ma, una volta scritti, i pensieri si trasformano, si deformano, e tutto diventa falso. A causa delle parole.
Dovunque mi trovi, scrivo. Scrivo mentre vado verso il bus, scrivo nel bus, nello spogliatoio, davanti al mio macchinario.
Il guaio è che io non scrivo ciò che dovrei scrivere, scrivo qualunque cosa, cose che nessuno può comprendere, e che nemmeno io comprendo.
La sera, quando ricopio quello che ho scritto nella mia testa durante la giornata, mi domando perché ho scritto tutto ciò.
Per chi? Per quale ragione?
Tutto diventa falso, a causa delle parole.
Così ha detto Agota, in mezzo al frastuono delle macchine.
E io mi sono domandato quanta fatica si è inflitta una donna che ha scelto di scrivere sempre dentro una lingua non sua. Perchè non si è portata oltre la frontiera la lingua materna, un tesoro così facile da nascondere, così sottile e privo di peso?
Stavo per domandarglielo, ma non c’era più nessuno a cui porre il quesito.
È tempo di andare, ha detto l’Acrobata.
Abbiamo riattraversato la tipografia, ci siamo riaggrappati alla scala.
Forse Agota sentiva che doveva dichiarare con forza l’inadeguatezza di ogni lingua, che una lingua vale l’altra, che tutte le lingue sono fatte in modo da non saper dire tutta intera la nostra verità.
O forse, ipotesi ancora più spaventosa, che la nostra verità, quando viene a galla, non è merito della nostra lingua allenata, ma del caso. Tanto vale, ho pensato, disubbidire anche al linguaggio. Allora la verità emergerà alla superficie, grazie agli errori di grammatica e alle sviste dell’ortografia.
[Agota Kristof (1935-2011) è stata una scrittrice ungherese naturalizzata svizzera. Il brano citato è tratto da Ieri, Torino, Einaudi, 1997, pp. 7-8.]