DromosFestival

CANTO NONO

Canto nono. Dove si narra di come, proseguendo la salita, i viaggiatori siano avvolti da un immenso sciame di falene. E di come poi, tra gli scaffali dell’archivio, la fotografa americana Diane Arbus racconti la disubbidienza alla norma.

 

[Mogoro, 11 agosto 2016]

 

Salivamo ancora lungo la scala, l’Acrobata ed io, con il passo onesto di chi sa di stare dentro un viaggio giusto. Eppure non ero tranquillo. In questo sogno ho imparato che quando tenti di arrivare in cima a un circo non sai mai da dove può arrivare l’imprevisto. Così pensavo, ed è allora che è arrivato lo sciame di falene, denso di milioni di insetti, con quel suo suono di piccole pietre rotolanti, di grano che precipita, minuscolo applauso del mondo che fa tremare l’aria. Guarda laggiù, ho detto all’Acrobata, vengono dritte contro di noi. Non ti preoccupare di nulla, ha detto lei, lascia che ci attraversino, e come sono arrivate se ne andranno. Come fa, l’Acrobata, ad essere sempre così sicura, anche di fronte alle piaghe bibliche, ho pensato. Come fa a non cadere mai.

Ci sono voci che terrorizzano, dentro lo sciame di falene. Voci che sanno di lontananza abissale, di oscurità che frinisce all’improvviso dentro la nostra vita. Le falene hanno energia notturna che le attraversa, e quella stoltezza senza rimedio di ballare intorno alla luce fino a bruciarsi. Ma qui, lungo una scala puntata verso l’apice di un circo, qui non c’era nessuna luce intorno a cui morire ipnotizzati, solo due viaggiatori immobili che aspettavano il passaggio di quella folla buia mentre, nella momentanea cecità tremolante, anche la luna nascondeva il suo volto color settembre, e restava muta in apnea.

Poi, come erano arrivate, le farfalle della notte sono volate via, ad applaudire da qualche altra parte il nostro piccolo mondo. Ma quello che resta, dopo, non è mai uguale a prima.

Il circo era scomparso, e al suo posto c’era una grande sala piena di scaffali, fitti di fascicoli, ogni fascicolo una targhetta, un numero, un nome. Sapevo, da dentro l’incoscienza del mio sogno, che in quei volumi era conservata la memoria del mondo, e che io non avevo il diritto di modificarla. Lei era lì, rovistava tra le carte, ne sceglieva alcune da portare via con sé, ne strappava delle altre. Cosa fai, le ho chiesto. Studio il mondo per capirlo, mi ha risposto.

Ma così lo distruggi, ho detto io. Non si può guardare niente senza modificarlo, ha detto lei.

Chi sei tu, le ho domandato allora.

 

Sono una donna che guarda, ha risposto, e ho sempre amato andare dove non ero mai stata prima. Forse dove nessuno prima di me era stato mai. Ho divorato il mio tempo a morsi larghi, per vedere, vedere, vedere più che potevo, e comprendere ciò che stava oltre le fessure dello sguardo. La verità è sempre un’altra.

Ci hai mai pensato? Ci sono cose che nessuno guarderebbe, se non dentro una fotografia.

Quando me ne sono accorta, ho compreso che dovevo dedicare a questa rivelazione la mia vita.

Ecco: questo devi dire, se ti toccherà di raccontarmi. Che Diane Arbus ha sempre cercato dentro le crepe. Perché sapeva che lì, negli interstizi, la verità ama nascondersi. Non in piena luce. Su questo scarto, dentro questa fessura sottile, io inquadravo le mie fotografie.

Di ogni cosa che mi passava davanti cercavo l’eccezione, lo scarto dalla norma. La deformità, la disabilità, la follia, la perversione sono state le grandi stelle nere attorno a cui ho lasciato che il mio occhio gravitasse. Ho guardato, ho guardato fisso, non mi sono lasciata scoraggiare dalla disperazione a comprendere, sono affondata sempre di più dentro la fessura oscura del mondo. Nella mia foto più famosa, una delle gemelle sorride, l’altra ha il broncio: entrambe sono spaventose, io ero entrambe. Qualcuno ha trovato geniali i miei scatti, qualcuno ci ha sputato sopra. Non mi è importata né una cosa né l’altra. L’essenziale era ubbidire solo alla chiarezza, alla pulizia dell’immagine, al suo rigore.

 

Mi sono avvicinato, e ho guardato accanto a lei i fascicoli su cui stava studiando. Raccoglieva gli errori degli archivisti, Diane, e li metteva insieme in una collezione abbagliante, disturbante. E poi, come a giustificare quel compito, ha aggiunto

 

Ho molto fotografato i mostri. Li trovavo esaltanti.

Trovavo nei mostri una qualità straordinaria, come nei personaggi dei racconti fantastici: erano esseri abnormi, minuscoli o giganteschi, solo per metà umani, non celesti né infernali, in parte investiti di attributi primordiali, o bestiali; cercavo gli esseri con qualche deformità, con qualche devianza. Cercavo i marginali, le scorie, i rigetti, i rifiuti del sistema. Cercavo i personaggi del circo, i clown, i mangiatori di fuoco, i divoratori di coltelli, i funamboli, gli equilibristi, i trasformisti. Cercavo tutti quegli esseri umani che espongono apertamente la loro differenza, la manifestano, innegabilmente iscritta dentro il corpo.

La maggior parte della gente vive con il terrore di essere anche solo sfiorata dalla differenza, con la paura di un’esperienza traumatica nell’incontro con l’abnorme.

Loro, i mostri, hanno già superato questa prova.

Per questo sono divenuti esseri altri, sono divenuti forse persino aristocratici.

 

Così ha detto Diane, che cercava i corpi storti, le inceppature di tutti i nostri meccanismi e raccoglieva, nella notte dell’archivio, tutti i casi irrisolti, tutte le storture che sfuggono alle classificazioni. E che, più facilmente, sono chiusi a chiave nel metallo segreto di uno scaffale.

Andiamo ora, mi ha detto l’Acrobata. Lasciamo qui tutto questo disordine, ho domandato. Si trova sempre da qualche parte un archivista che riesce a rimettere ordine anche dove non si può, mi ha risposto.

E come al solito non avevo nulla da aggiungere.

Abbiamo percorso a ritroso i corridoi dell’archivio, abbiamo ritrovato la scala, abbiamo ricominciato a salire. Ancora a lungo mi è rimasta negli occhi Diane, con tutta l’inquietudine disturbante a cui ha sottoposto il suo e il nostro sguardo.

Che esperienza immensa, ho pensato, e rischiosissima, gettarsi nella notte dell’eccezione e disubbidire ai riposanti pomeriggi della norma.

 

 

[Diane Arbus (1923-1971) è stata una fotografa statunitense. Il brano citato è tratto da un’intervista riportata in An Aperture Monograph. Fortieth Aniversary Edition, New York, Aperture, 2011 (tradotta con qualche libertà).]

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