Canto ottavo. Di come, lungo la salita, i due viaggiatori facciano naufragio.
E di come, sull’isola deserta, la scrittrice italiana Anna Maria Ortese insegni la disubbidienza dell’esilio.
[Neoneli, 10 agosto 2016]
Salivamo. Ogni tanto guardavo in su, per immaginare il trapezio più vicino. Non distrarti, ha detto l’Acrobata, non è davvero questo il momento. Non c’è minaccia più dura di quella che si nasconde nelle angosce della voce. E il tono della mia guida mi è parso avvelenato da una sincera preoccupazione. Aggrappati con forza, mi ha detto.
La scala cominciava ad oscillare, prima lentamente, poi con sempre maggiore velocità e forza. La scala oscillava avanti e indietro, potentemente, come l’asse di un pendolo. Non sembrava neppure più una scala. Era piuttosto un palo di legno, un alto palo di legno che oscillava avanti e indietro, inesplicabilmente. Sentivo una terribile nausea afferrarmi mentre cercavo di aggrapparmi a quel palo, che non era neppure un semplice palo in balìa dell’andare e del venire, era piuttosto un albero maestro che oscillava paurosamente, avanti e indietro. Era l’albero maestro di una nave che beccheggiava, indietro, avanti, in mezzo a una furiosa tempesta.
Lasciami andare via di qui, mi ribellavo, lasciami. Basterà cadere nel vuoto perché io riesca a svegliarmi da questo incubo maledetto privo di qualsiasi logica narrativa, lasciami andare, voglio smettere questo viaggio, voglio starmene tranquillo nel mio letto, lasciami, insistevo.
Ma non riuscivo a mollare la presa, perché anche in mezzo a tutta quella paura, avevo bisogno di sapere come sarebbe andata a finire questa storia. Sia come sia, eravamo su una nave, in piena tempesta. Una nave deserta, senza equipaggio, una nave alla deriva nel nulla malato e oscurissimo del divino mare rabbioso, in mezzo al cuore buio della luna nuova d’agosto.
Poi non ricordo niente altro che l’enorme schianto: il mare ci ha lanciato verso gli scogli, la carena della nave si è sfondata contro le pietre aguzze, e mi sono trovato, incredulo e salvo, sulla riva.
Lei non mi ha teso la mano, non mi ha aiutato ad alzarmi. Non ti aiuterò, mi ha detto. Se vuoi alzarti, alzati da solo. Si può fare. Si può fare sempre. Le ho ubbidito, ma non le ho nascosto un piccolo capillare d’odio all’angolo dell’occhio. Lei lo ha ignorato. Chi sei, le ho domandato, gocciolante di naufragio.
Io sono l’unica abitante di quest’Isola.
Il mio naufragio l’ho coltivato per tutta la vita. E poiché il naufragio non è che il fratellastro perfido del viaggio, ho sempre camminato, senza orologio e senza mappe. Di tutte le città sono stata ospite, per lo più non desiderata. Vai via, Anna Maria, vai via, mi diceva, prima o dopo, ogni luogo incontrato. Roma, la Puglia, Napoli. Vai via! Firenze, Trieste, Venezia. Vai via! Londra, Mosca, Milano, Via!
E ora eccola qua, Anna Maria Ortese, nella sua solitudine trasparente e colma.
È che una scrittrice, a volte, è davvero una bestia che parla. E la città ha terrore della bestia, teme il ritorno di ciò da cui con ogni forza ha cercato di fuggire. Io no, io sono una che ha visto enormi tigri dentro il campo azzurro del cielo, e le ha raccontate, tutte quante, senza sconti. Ho sentito il lamento del cardillo, la nota continua e lugubre che sta al fondo del mondo, angosciosa e attraente, e l’ho portata alla superficie dell’udito. La città, la città murata degli uomini che serrano le porte quando si alza la luna, la città spaventata degli uomini fuggiti dalla bestia, ecco quella città mi ha cacciata via.
Ma io ho avuto per me, fino all’ultimo, la città degli esseri piccoli, la vita brulicante delle tartarughe e dei bruchi, dei gatti e dei pipistrelli, la città delle bestie, bestia che parla tra bestie mute. Scrivilo, che alla fine quella città era la città giusta, per Anna Maria. Quella città le è bastata.
L’ho guardata, mi ha guardato. So cosa mi vorresti chiedere, ha aggiunto, vuoi sapere se dopo tutta la solitudine a cui mi hanno condannato i miei libri, le mie città, le parole di chi non mi ha mai capita, vuoi sapere se mi è rimasta qualche cosa in cui credere.
Naturalmente. Io credo in tutto ciò che non vedo, e credo poco in quello che vedo. Credo che la terra sia abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne, dei deserti. Credo anche nei morti che non sono più morti (la morte è solo del giorno solare). Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano e si raccomandano di conservare loro la pioggia. Nelle farfalle che ci osservano, improvvisando, quando occorra, magnifici occhi sulle loro ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono anime felici, e si sentono all’alba sopra le case. In tutto credo, come i bambini.
In una sola cosa non credo: nell’uomo e nella donna. Essi mi sembrano ormai luoghi comuni, simulacri, canne vuote, dove nelle notti d’inverno fischia ancora, piegandole, il vento dell’intelligenza che li sedusse e li distrusse.
Così ha detto, e si è avviata verso il centro esatto dell’Isola.
Mi sono voltato, ho guardato il mare. La luna, solitaria nel cielo, si moltiplicava in moltitudini di barbagli sulla superficie increspata dell’acqua. Andiamo, mi ha detto allora l’Acrobata, e io l’ho seguita.
La scala ora usciva dall’acqua, e puntava dritta verso il cielo bianco e rosso del circo. Tutto il nostro viaggio trascorso era nascosto dentro l’abisso oscuro del mare. Nel mare delle megattere, e dei coralli, ho pensato, nel mare delle bestie mute. Ci siamo immersi in quell’acqua nero petrolio, fino ad arrivare alla scala, ci siamo aggrappati agli scalini.
Lungo la salita, l’Isola si allontanava, là sotto.
Anna Maria ha scontato quel suo potere di bestia parlante, con la povertà, la solitudine, il silenzio. In altri tempi avrebbe guadagnato un rogo, nel secolo ventesimo le è toccato un esilio.
Ogni atto di disubbidienza, ho pensato, porta sempre un dono. E pretende sempre un prezzo.
[Anna Maria Ortese (1914-1998) è stata una scrittrice e poetessa italian. Il brano citato è tratto da Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997, pp. 160-161 (con qualche taglio e qualche leggera libertà).]