DromosFestival

CANTO QUARTO

Canto quarto. Di come la salita sia impedita da un fitto intrico di rami.

E di come tra gli alberi la scrittrice inglese Virginia Woolf racconti la disubbidienza del cominciare i sentieri.

 

[Baratili San Pietro, 6 agosto 2016]

 

La salita procedeva, stranamente rapida e silenziosa. Nessun nuovo imprevisto sembrava interrompere il nostro orizzonte verticale.

Invece, Non possiamo andare più avanti, ha detto improvvisamente l’Acrobata.

Ho guardato in alto: la scala scompariva dentro un fittissimo intreccio di legno e foglie, che ci bloccava l’ascesa. Mi sono guardato intorno: accanto a noi si proiettava nel vuoto un lungo, grande, ponte roccioso, che conduceva in mezzo a un vasto bosco: i rami che ci impedivano la salita venivano da lì. L’Acrobata ha saltato con sicurezza giù dalla scala, è atterrata sulla roccia. Dopo pochi passi era scomparsa tra i tronchi.

Ero di nuovo solo, in mezzo ad alberi azzurri, dentro ombre blu tra le foglie notturne. Là sopra, in mezzo alle fronde, indovinavo appena il disco pallido di una luna di aprile.

Vieni qua, avvicinati, mi ha detto. Era altissima, il viso affilato, i capelli sciolti sulle spalle, un cappotto nero, con le tasche pesanti di pietre nascoste. In mano aveva una piccola scure, e stava incominciando a tagliare un albero.

 

Chiamami Virginia, ha detto, o chiamami come ti pare. Potresti chiamarmi Mary Beton, Mary Seton, Mary Carmichael o qualunque altro nome ti piaccia, o che ti sembri abbastanza degno di Londra: la cosa non avrebbe alcuna importanza.

I nomi sono a volte un accessorio inutile, come lo è cercare di rinchiudere uno scrittore dentro i frammenti sparsi della sua vita. Però bisogna pur scrivere biografie, questo è chiaro, questo è ciò che ti viene richiesto dal contratto: determinare perché, in questo preciso (si fa per dire) momento, questo dubbio fatto di cronaca familiare determina questo più che dubbio romanzo. E questo vale, soprattutto, se Beton, Seton, o Carmichael o, per dire, Virginia Woolf, hanno la sventura di essere scrittrici, donne, quindi ovviamente più fragili moralmente, fisicamente, psichicamente, quindi ovviamente con le solite crisi di nervi. Dio, che noia. Aiutami ad abbattere quest’albero, piuttosto.

 

Paralizzato dal fiume di parole, Come li scegli, le ho chiesto.

Abbatto solo quelli già morti, mi ha risposto.

E come riconosci quelli morti, ho domandato ancora. Sento che si nutrono solo di se stessi, ha sentenziato. Non credo di avere capito, ho ribattuto, mi sembra un bosco così bello.

Ci vuole istinto, mi ha risposto, ed esperienza della rabbia. Non tutti gli alberi sono innocenti.

Cosa vuoi che faccia, ho domandato arreso. Spingi in là il tronco, mentre io do l’ultimo colpo.

Un colpo netto, preciso, e l’albero è precipitato nella direzione stabilita, portandosi dietro tristemente, la gigantesca, chioma morta. Vieni qui, ora tocca a quest’altro. E ha ricominciato a colpire, con furia, un altro albero. Il tronco colpito lasciava a terra schegge di specchio.

 

Se proprio devi raccontarmi, ha proseguito, ti prego non scrivere le solite cose: il femminismo, il modernismo, il suffragio alle donne, la violenza sessuale, forse sì, forse no, la psicosi, il suicidio. Ti prego, no. Se devi dire qualcosa di me, dì piuttosto la sola cosa importante: che Virginia ha trascorso tutta la sua vita cercando l’integrità della scrittura: una voce piena, e senza rivendicazioni, pulita e fiera. Né maschile, né femminile, solo una voce androgina che conduce con sicurezza la scrittura. Non mi fare impazzire, ti prego, non mi fare altre domande.

 

L’ho seguita, e l’ho vista di nuovo ricominciare a colpire, con furia violentissima,

Ancora un altro albero, un altro ancora, ancora colpi netti di scure, e sudore, e frantumi di vetro e argento abbandonati sulla terra.

Poi si è fermata, e mi ha guardato dritto negli occhi:

 

Per secoli le donne hanno avuto la funzione degli specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali. Senza quel potere, la terra sarebbe forse ancora tutta giungla e paludi. Gli specchi sono indispensabili a ogni azione violenta ed eroica: è questa la ragione per la quale sia Napoleone che Mussolini insistono con tanta enfasi sull’inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, verrebbe meno la loro capacità di ingrandire.

Ogni uomo deve poter dire, entrando in una stanza, Sono superiore a metà della gente che sta qua dentro. È impossibile per una donna dire Questo libro è brutto, questo dipinto è debole, senza procurare a un uomo molto più dolore, e provocare molta più rabbia di quanta ne susciterebbe un altro uomo che facesse la stessa critica. Perché se lei comincia a dire la verità, la figura nello specchio, fatalmente, si rimpicciolisce.

 

Così ha detto, in piedi al centro di quella piccola strage di alberi, o di specchi rotti che mi moltiplicavano il volto. Andiamo, mi ha detto all’improvviso l’Acrobata. Dove, ho domandato.

È ora di ricominciare a salire, mi ha risposto.

Ho guardato verso il ponte di roccia: la scala era tornata a puntare dritta in alto, nessun ramo impediva il passaggio. Non dimenticare, ha detto l’Acrobata, che al di là delle apparenze questo è un circo, e la nostra meta è il trapezio, sulla cima.

Ma non possiamo andare, ho obiettato. E perché mai, mi ha ribattuto.

Ho indicato gli alberi e, Abbiamo lasciato un sentiero interrotto, le ho detto.

No, mi ha risposto prendendomi la mano, Virginia ci ha lasciato un sentiero incominciato.

 

 

[Virginia Woolf (1882-1941) è stata una scrittrice e saggista inglese. Il brano citato è tratto da Una stanza tutta per sé, Torino, Einaudi, 1995, pp. 72-75 (con qualche taglio e qualche libertà).]

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