DromosFestival

CANTO QUINTO

Canto quinto. Dove si racconta di come un potente incendio attraversi il circo, e poi i due viaggiatori si ritrovino dentro un antro immenso. E di come, nell’oscurità della grotta, la scrittrice danese Karen Blixen racconti la sua disubbidienza al futuro.

 

[Riola Sardo, 7 agosto 2016]

 

Sembrerà strano, ma la salita incoraggia a salire ancora. Ho alzato lo sguardo, l’Acrobata era sopra di me di pochi gradini, lontano il trapezio oscillava come una promessa da mantenere.

Allora è arrivato il fuoco.

Non so da dove sia nato, non ha senso chiederlo, ogni cosa è legno davanti all’incendio, ogni cosa davanti alla vampa crepitante intuisce il proprio innato talento del bruciare. Io stesso, ho pensato, fra poco sarò legno, carne arsa, Cosa facciamo, ho urlato, Dove possiamo fuggire, e mi aggrappavo al gradino che mi sembrava sempre più rovente. Stai calmo, ha detto l’Acrobata, con la sua voce sempre paziente, Ascolta il fuoco, ascolta quello che ha da dirti.

Allora ho guardato le fiamme attraversarci, il loro canto immenso vestirci di luce antichissima. Aveva un ritmo ossessivo di tamburi e di vento, un’ipnosi della notte del tempo.

Poi, come è arrivato, l’incendio è trascorso, domato da se stesso o dai suoi simboli, chi può dirlo. E il circo era scomparso, o meglio era diventato oscuro, nero, pietrificato. Era ora un antro gigantesco, in mezzo al quale stava, appesa e sola, la nostra scala.

Facciamo una sosta qui, ha detto l’Acrobata.

Eravamo dentro una cavità immensa, di cui non si avvertivano ingressi, o uscite. Solo la vacua grandiosità di un utero originario, perso dentro chissà quale vulcano. Qualcuno però abitava quell’immenso vuoto, perché nel suo centro esatto (l’immensità possiede solo esattissimi centri e nessuna periferia), nel suo centro esatto bruciava un piccolo fuoco.

Lei era seduta lì accanto. Sapevo di dover chiedere, sapevo ormai che il senso del mio viaggio era domandare, Chi sei.

 

Chi sei, tu mi domandi. Chi può dirlo. Non sono mai stata sicura neppure del mio nome. L’anagrafe di Copenaghen mi ha registrata Karen Dinesen; io ho firmato i miei libri secondo l’estro del momento, Isak Dinesen, Tania Blixen, Pierre Andrézel. Tu forse mi conosci come Karen Blixen.

Un indomabile amore per la grandezza mi ha portato nel cuore di tenebra del mondo.

In Africa si è dischiuso per me un grande mondo di poesia, e mi ha fatto entrare, e io l’ho amato. Ho guardato i leoni negli occhi. Ho dormito sotto la Croce del Sud. Ho visto le grandi praterie in fiamme. E le ho viste coperte di sottile erba verde dopo la pioggia. Sono stata amica di Somali, Kikuyu, Masai. Ho volato sopra gli altipiani di Ngong. Poi ho cominciato a scrivere.

Ogni parola che ho scritto, l’ho scritta solo dopo che il cuore della mia vita lo avevo attraversato. Si può scrivere anche così, con lo sguardo sempre indietro. E non è nostalgia, è certezza che l’incanto sia stato nostro, eterno almeno per un tratto di vita, gigantesco e caldo.

 

Così ha detto, Karen, vestita di fiamme, e ha preso una tazza di terracotta grezza posata accanto al fuoco, che era piena di un fluido ocra, Vieni con me, mi ha detto. L’ho seguita fino ad una delle pareti della grotta: era densa – solo ora me ne accorgevo – di figure disegnate. Sulla pietra si inseguivano centinaia di figure, mandrie di bufali e leoni in branco, uomini con teste di rinoceronte e demoni con corna di antilope, chiusi in danze tonde intorno ai fuochi. In alto, un cerchio rosso e uno bruno, il sole equatoriale e la luna nuova di maggio. Tutt’intorno, mani di ogni colore, come un gigantesco applauso al cuore nero del mondo.

Aggiungi la tua, mi ha detto Karen, e ha immerso la mia mano nella ciotola d’ocra.

Io ho ubbidito al richiamo dell’antico, ho appoggiato le dita e il palmo sulla pietra, mi sono unito al suo grande canto.

 

Io conosco il canto dell’Africa,

della giraffa e della luna nuova distesa sul suo dorso,

degli aratri sui campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè.

Ma l’Africa conosce il mio canto ?

L’aria sulla pianura fremerà un colore che io ho avuto su di me?

E i bambini inventeranno un gioco nel quale sia contenuto il mio nome?

La luna proietterà sulla ghiaia del viale un’ombra che mi assomigli?

E le aquile sulgli altopiani di Ngong guarderanno se io ci sono ancora?

 

Così ha detto, lenta e solenne, e io sono rimasto ancora per un istante a guardare quel gigantesco affresco senza tempo. Dopo un tempo che non so misurare, Andiamo, mi ha detto l’Acrobata.

Sono stato dentro la grotta degli antenati, ho pensato. Ho sentito il rosso d’uovo ungermi le mani, ho visto le mie mani farsi mani eterne sulla pietra.

Ho ricominciato la salita, salutando con nostalgia quell’antico immenso cuore di fuoco e pietra. Ci sono momenti in cui si può persino disubbidire al futuro.

 

 

[Karen Blixen (1885-1972) è stata una scrittrice danese. Il brano citato è tratto da La mia Africa, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 68 (riscritto con qualche libertà)]

Multimedia

Condividi su: