Canto sesto. Dove si racconta di come, lungo la salita, la scala si introduca dentro un angusto tunnel di legno, che conduce al teatro anatomico. E di come, nella cavea del teatro, la pittrice messicana Frida Khalo racconti la disubbidienza al dolore.
[Oristano, 8 agosto 2016]
Per un lungo tratto, la salita è proseguita senza pause.
Andavamo, l’Acrobata ed io, lenti e regolari, nel buio del circo deserto.
Non mi sono accorto subito dell’ingresso nel tunnel: l’imboccatura era molto ampia, aveva la forma di un largo imbuto rovesciato che si stringeva man mano che procedevamo verso l’alto. Era come entrare in un gigantesco orecchio di legno, un padiglione tenuto insieme da immensi archi di ferro, una macchina acustica, dentro la quale ogni più piccolo suono si percepiva amplificato. Ma più salivo, più l’imboccatura si stringeva. Ho sentito un’ansia gigantesca dell’aria chiusa afferrarmi la gola, mi sono fermato. Proseguiamo, ha detto l’Acrobata, Ho paura, le ho detto io, Non averne, non c’è altra strada, ha ribattuto lei, senza lasciare spazio a repliche, ed è scomparsa ingoiata nel pertugio buio. Mi sono fatto forza, e sono penetrato anche io dentro quell’intestino di legno. Da su veniva odore acido e malsano di anestetico.
Dopo un tempo complicato e immenso, quando ogni possibilità del respiro mi sembrava negata, quando ormai ero certo che sarei soffocato, Siamo arrivati, ha detto l’Acrobata, indicandomi una piccola apertura sul fianco del tunnel, Fai attenzione a non cadere di sotto, e seguimi. Mi sono fatto forza, e sono entrato anche io.
L’ambiente in cui mi sono trovato era un grande anfiteatro di legno, alto e profondo: ogni gradinata aveva un’alta balaustra, che consentiva di appoggiarsi e guardare di sotto. Lei era distesa al centro della cavea, indossava un corpetto, aveva una gamba rivestita di fasce di metallo, stringeva in una mano la stampella, come uno scettro.
Stava immobile, innocente vittima sacrificale della lezione nel teatro anatomico.
Mi ha ficcato lo sguardo nello sguardo, nero come un’eclissi di luna di giugno.
Ora ascoltami, mi ha detto. So che mi conosci. So che credi di conoscermi. Conosci il mio volto, almeno, l’hanno usato infinitamente, come un marchio, un segno della sfida. Fanno pubblicità automatica, certi volti. Certi volti funzionano come uno slogan. Che disdetta, a pensarci, ora. Una vita a proclamare una singolarità, e ti ritrovi trasformata in un marchio.
Io il mio volto l’ho dipinto infinitamente solo perché sul letto c’era uno specchio.
Nella mia vita ho passato molto tempo da sola a guardarmi, sono stata il soggetto che ho conosciuto meglio.
Ma questo lo sai già. Nelle biografie c’è scritto tutto, o così credono i loro autori. Frida, figlia del fotografo Wilhelm Khalo, l’adolescente che si vestiva da uomo. La rivoluzionaria, la militante del partito comunista messicano, il glorioso anno 1928. Il compagno Troskij, accolto, anche troppo. Diego, l’amore gigantesco, la farfalla e la rana. Quanto hanno scritto, quanto era facile raccontare la mia vita come un melodramma.
Ma tu. Tu, ti prego, raccontami solo così. Solo un corpo esposto, aperto e dichiarato. Un corpo frantumato, senza niente altro, senza pettegolezzi facili intorno alla pittrice rivoluzionaria col sopracciglio indio. No, tu no, tu raccontami solo nel corpo, con il corpo, dentro il corpo. Tutto sta scritto dentro un corpo. Anche la mia rivoluzione sta tutta scritta dentro il mio corpo.
Così ha detto, Frida. E poi ha provato ad alzarsi dalla barella, muovendosi a scatti, come un automa, o un cavaliere medievale dentro la sua corazza. Tutto sta scritto nel corpo, ha ripetuto,
Siamo proprio questo: un miscuglio di carne e sangue. Niente di più. Siamo questa meraviglia. Uno straordinario corpo in cui si imprimono tutte le ferite.
Un bel giorno Rembrandt ha dipinto “La lezione di anatomia”, ci ha ridotto a ciò che siamo e noi non lo abbiamo sopportato. Una tale verità ferisce lo sguardo. Lo offende.
Io no, non mi sono sentita offesa. Anzi, ho imparato a guardarmi.
Ho aperto il mio corpo, ho espresso quello che ci sentivo dentro.
Ciò che provavo è stato talmente violento che se non avessi tentato di circoscriverlo, identificarlo, ordinarlo, sarei diventata folle, sommersa da dolori che non potevo comprendere, né dominare. Non si può murare viva la propria sofferenza: si rischierebbe solo di lasciarsi divorare dall’interno, attraverso vie oscure e insensate.
La forza di ciò che non si esprime è implosiva e devastante.
Solo guardare ed esprimere ciò che il corpo sente è cominciare a liberarsi.
Così ha detto, vestita di ferro e legno, nuda nelle sue protesi, nelle sue grucce, nei suoi castelli di carne, fiori, colonne, uccelli e busti ortopedici. E io ho visto, giuro che l’ho visto, ché dentro gli incubi tutto è possibile, ho visto la gabbia che rinchiudeva il suo corpo trasformarsi in una voliera abitata da centinaia di pappagalli azzurri, e lei ha aperto quella voliera, e li ha liberati in stormo, a volare schiamazzanti e liberi dentro il teatro.
Andiamo, la salita ci attende, così ha detto l’Acrobata. Si è diretta verso l’apertura da cui eravamo entrati, e io l’ho seguita. Ho lanciato un ultimo sguardo a quella moltitudine di ali, che accendeva il teatro di giallo, di scarlatto e di blu elettrico.
Anche un corpo martoriato, ho pensato, se trova il coraggio di disubbidire al dolore, mantiene dentro di sé la promessa del volo.
[Frida Khalo (1907-1954) è stata una pittrice messicana. Il brano citato è tratto da Il diario. Autoritratto Intimo, Milano, Mondadori, 1995 (citato con libertà).]