DromosFestival

CANTO SETTIMO

Canto settimo. Di come, lungo la salita, ogni cosa venga devastata da una pioggia di pietre.

E di come poi, tra le colossali rovine, la poeta Sylvia Plath racconti la disubbidienza al senso della misura.

 

[Tharros, 9 agosto 2016]

 

Siamo a metà del viaggio, ha detto all’improvviso l’Acrobata, e aveva lo sguardo dei maestri severi quando l’allievo riporta a scuola un compito ben fatto. Ma essere a metà del cammino significa solo essere a metà della prova. E nell’istante in cui ho pensato questa frase, è cominciata la pioggia di pietre.

Stai bene aggrappato alla scala, ha detto l’Acrobata, e forse non ti colpiranno. Forse. Una sola piccola parola, due vocali e tre consonanti di puro terrore. Tra tutti i modi di morire, la lapidazione non l’avevo messa in conto.

Chi lancia pietre dal cielo? L’apocalisse? Asteroidi? Terremoti celesti? Sciami di stelle a brandelli che la terra attraversa impudente nel suo viaggio siderale? Chi può dire quale oscura latebra dell’inconscio nutra i nostri incubi?

Senza risposte, stavo aggrappato alla scala, e ascoltavo le voci delle pietre: ognuna diceva una colpa, una maledizione, una sfida andata a male, una cancrena dell’immaginazione. Era come se il pianeta tutto crollasse su se stesso, e il frastuono del crollo era insopportabile, mentre le pietre si frantumavano piovendo una sull’altra e sollevando un’immensa nube di polvere, che strozzava il respiro. Basta, ho pensato, non è davvero più sopportabile tutto questo. E l’ultima pietra mi è caduta accanto.

Subito si è fatto un silenzio lugubre e sacro, innaturalmente vuoto nel sibilo acustico che segue il rombo. Con gli occhi chiusi, incredulo della salvezza, ho atteso che le cose, come la polvere, si posassero dentro di me. Quando ho avuto la forza di tornare a guardare tutta quella immensa devastazione, è stato come aprire gli occhi su una sconfinata pietraia incandescente, una gigantesca città in rovina, azzurrata nella luna piena di luglio.

Tutta avvolta in bende candide, lei con una scopa di paglia ripuliva lentamente e con studiato impegno un imponente rocco di colonna. Chi sei, le ho domandato, e cosa stai facendo.

 

Tutto è gigantesco, ha detto lei senza rispondere subito, tutto è immenso: non si farà mai in tempo a ripulirlo tutto. Eppure ci tocca pulire il mondo fino a morirne. Non si può vivere dentro una città in rovina, dentro una casa così sporca. No, non sono sicura che tu mi comprenda, pazienza.

Solo questo ti chiedo: se devi raccontare qualcosa di me, non banalizzare mai la morte che ho scelto di darmi. Dì questo, piuttosto: che Sylvia Plath, anche se aveva capelli biondi perfetti, ha avuto sempre orrore della normalità. Che sciocchezza. Che cosa è mai, la normalità, dentro questo mondo gigantesco, di madri meduse e padri sacchi stracolmi di Dio?

No, non si capisce, neppure detto così. Non riesco mai a trovare il dizionario dei sinonimi quando mi serve. Ho lottato tutta la vita contro il demone delle parole. Non riuscivo a ricrearlo, quel ritmo che avesse il suono del grande orologio del mondo, la perfezione musicale e algebrica del respiro, dell’amplesso, del mare. Come si può guardarlo tutto quanto, il mondo grande terribile, con questi occhi piccoli di donna di casa?

Accendi il gas e metti in forno la torta di mele per i miei bambini.

Tutto è gigantesco, tutto è immenso: non si farà mai in tempo a ripulirlo tutto.

 

Così ha detto, e aveva un’espressione serissima, come per constatare l’immensità del lavoro che ancora rimaneva da fare.

 

È una statua immensa.

Non riuscirò mai a rimetterla insieme interamente, pezzo a pezzo

incollata e connessa al punto giusto.

 

Sento ancora ragli di mulo, grugniti di maiale, osceni

schiamazzi d’oca dalle sue labbra svergognate.

Peggio che in un cortile.

Sono anni ormai che mi stanco

a dragargli la gola dal fango.

E non lo conosco più di prima.

 

Un gradino dopo l’altro dò la scalata al suo corpo,

con barattoli di colla e secchi di disinfettante.

Avanzo lentamente come una formica in lutto

sui desolati ettari della sua fronte

per riparare le placche del suo cranio e liberare

i bianchi e vuoti crateri

dei suoi occhi.

Padre, tu solo

sei eroico e storico come il Foro Romano.

Ci vorrebbe più di un fulmine

per creare una rovina così imponente.

 

Certe notti mi accuccio nella cornucopia

del suo orecchio sinistro, riparata dal vento.

Conto le stelle rosse, e aggiungo una stella viola,

mentre il sole sorge sotto il pilastro della sua lingua.

Le mie ore sono sposate con la sua ombra.

Non ascolto più il suono della barca

contro le pietre piatte della riva.

 

Così ha detto. E solo allora, guardandomi intorno, ho intuito che la forma di quella gigantesca città crollata era quella di un uomo disteso, un grande impossibile Padre-Mondo da ripulire e ricostruire, con la pazienza infinita dei figli che sanno la certezza di fallire.

Andiamo adesso, mi ha detto l’Acrobata, dobbiamo continuare la salita.

Io l’ho seguita verso la scala, e più salivamo, più indovinavo nell’immensa rovina di pietre ed erba che ci lasciavamo indietro la forma di quel gigantesco corpo-padre raccontato da Sylvia, in cui si riassumevano vita, morte, lutto e memoria.

Ha la forma di un desolato colosso di pietra, il prezzo altissimo della dismisura.

 

 

[Sylvia Plath (1932-1963) è stata una scrittrice e poetessa statunitense. Il brano citato è tratto da Il colosso (The Colossus), in Opere, Milano, Mondadori, 2002 (con qualche taglio e qualche libertà).]

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