Canto undicesimo. Dove si narra di come, proseguendo nella salita, i due viaggiatori si ritrovino a camminare dentro il museo. E di come, tra le opere d’arte, la scrittrice francese Marguerite Yourcenar racconti la disubbidienza alla morte.
[Nureci, 14 agosto 2016]
Inizio ad essere stanco, ho detto all’Acrobata.
Non sei autorizzato ad esserlo, mi ha risposto lei. E non c’era altro da dire.
Salivamo ancora, lungo la scala verticale, nel buio. È assurdo, pensavo, che questa scala da giù sembrasse così breve, mentre lungo la salita diventa sempre più lunga, e contiene spazio sufficiente per la folle successione di tutti questi incontri.
Non farti domande inutili, ha detto l’Acrobata indovinando i miei pensieri.
È stato in quel momento che ho notato i dipinti.
Parallela alla scala, e a poca distanza, si sviluppava una parete verticale (quando era cominciata? dove poggiava?), una parete sulla quale erano appesi, uno sull’altro, per un tratto di cui non potevo stabilire l’ampiezza, quadri di ogni genere e dimensione. Il grande paesaggio stava accanto al piccolo ritratto, la natura morta conviveva con la grandiosa battaglia, danzatrici velate cercavano di ignorare dubbi assemblaggi floreali, mentre dei ed eroi perdevano i loro sguardi sconcertati dentro ipnotiche composizioni astratte.
Non ti distrarre, andiamo, mi ha intimato l’Acrobata, non c’è tempo per le lezioni di storia dell’arte: ci attende un’altra prova. Ho affrettato la salita cercando di non farmi distrarre da quella convulsa rapsodia di immagini. Siamo arrivati, ha detto infine l’Acrobata.
Incastonata tra una battaglia equestre, una tessitura geometica, una Madonna col bambino e un ritratto di gentiluomo, stava una gigantesca finestra aperta. Non ha senso, ho protestato. E tu allora non domandartelo, mi ha risposto. Con uno slancio ha abbandonato la scala e si è lanciata dentro l’apertura. Io l’ho seguita.
La finestra dava su un lunghissimo corridoio. Le pareti erano rivestite di un tessuto scarlatto, Vieni qui, mi ha detto, con voce debolissima di agonizzante: l’ho sentita a stento, nella lontananza. Sul fondo del corridoio era disposto un grande letto. Il suo largo corpo era disteso sotto le lenzuola, il volto scolpito da calanchi di rughe, i capelli candidi, la fronte pallida di morte vicina. Chi sei, adesso, le ho domandato.
Sono chi sono sempre stata, mi ha risposto. Anche adesso, nell’istante definitivo in cui persino a me tocca scorgere di nuovo il profilo della morte, ebbene anche ora proclamerò che il tempo non è niente. Che la morte non è mai esistita veramente.
Scrivilo, se dovrai raccontarmi: scrivi che Marguerite Yourcenar non si è arresa al tempo. È diventata una statua, a furia di contemplarlo, eppure fino all’ultimo non gli ha creduto. Basterebbe anche così. Potrei non dirti altro di me, e ti avrei già detto tutto.
Ma voglio che tu comprenda davvero, e a fondo. Scrivi: Adriano imperatore dei romani, io l’ho avuto davvero al mio fianco, ne ho sentito la voce, come quella di un fratello. Ho voluto sentirla, e ci sono riuscita. Nella villa di Tivoli sono entrata per la prima volta quando avevo ventuno anni. Quando ho pubblicato le Memorie di Adriano, ne avevo cinquanta. Ventinove anni della mia vita, un nulla, per inseguire un solo libro. Per riuscire a raccontare l’istante fatale di un imperatore, il tramonto del suo impero. Ci sono libri che restano lì ad attenderci, come promesse bugiarde che attendono il momento di diventare vere. Non si è trattato che di scrivere quel libro, a qualunque costo.
Bisognava semplicemente dare un metodo al delirio. Scoprire che anche per il delirio ci vuole metodo. E dopo, dopo il tempo non c’entra per nulla, la morte diventa senza senso, per chi riesce a ridare ai volti di marmo l’agilità della cosa viva.
Da quel momento, ogni essere che ha vissuto l’avventura umana sono stata, sono e sarò io.
Così ha detto, si è scossa un poco dentro il letto, assestando quel suo grande corpo rugoso, poi si è voltata verso di me, mi ha ficcato negli occhi i suoi occhi vitrei, ma ancora incredibilmente vivi, e ha insistito, Ascolta:
Io non sarò mai vinta.
Non lo sarò che a forza di vincere.
Poiché ogni trappola evitata mi rinchiude in quell’amore
che sarà la mia tomba,
finirò la mia vita in una segreta di pure vittorie.
La disfatta trova chiavi, apre porte.
Per raggiungere il fuggiasco, la morte
deve mettersi in movimento,
perdere quella fissità che ci fa riconoscere in lei il duro contrario della vita.
Ci offre la fine del cigno colpito in pieno volo.
Come per la donna asfissiata
nel vestibolo della sua casa di Pompei,
la morte non fa che prolungare nell’altro mondo
i corridoi della fuga.
Per me, la morte sarà di pietra.
Conosco le passerelle, i ponti girevoli, le trappole del Destino.
Non mi ci posso perdere.
La morte, per uccidermi, avrà bisogno della mia complicità.
Poi ha taciuto, e per attimi interminabili mi è parso che non respirasse, ho temuto di avere davvero assistito al finale di una vita trascorsa a contemplare la nostra grande oscura frontiera. Lontano, attraverso la finestra, calava la sottile falce di una luna di novembre.
Andiamo, adesso, mi ha ordinato l’Acrobata. La sua voce veniva da un’indecifrabile lontananza, come scavata fuori da un abisso immenso. Mi sono voltato, solo per un attimo, a contemplare il grande incavo lasciato nel letto da quel corpo di donna morente. Poi ho seguito l’Acrobata lungo il corridoio del museo, fino alla finestra, fino alla scala. Abbiamo ricominciato a salire.
Si può disubbidire persino alla morte, persino al tempo, ho pensato, se si è pronti a sopportare, dentro la propria carne, il loro gigantesco peso di statue eterne.
[Marguerite Yourcenar (1903-1987) è stata una scrittrice francese. Il brano citato è tratto da Fuochi, Milano, Bompiani, p. 23 (con lievissimi