Canto dodicesimo. Dove si narra di come, a pochi gradini dalla cima, i due viaggiatori siano investiti da una feroce bufera. E di come nell’aria tornata calma avvenga l’incontro con la poeta Elizabeth Bishop, che insegna l’amore disubbidiente.
[Nureci, 15 agosto 2016]
Eravamo quasi arrivati in cima al circo, l’Acrobata ed io.
Mancavano pochi gradini, la piattaforma del trapezio era lassù, a pochi passi.
Non riuscivo a credere di essere davvero arrivato alla fine del viaggio.
Ora reggiti forte, mi ha detto l’Acrobata. Non ho capito subito cosa intendesse: a me sembrava che ormai ogni pericolo fosse scampato. Reggiti forte, ha ripetuto. Ed è allora che è arrivato il vento.
Non era semplicemente vento. Era una burrasca, un uragano violentissimo, dentro la notte vasta delle altezze, un vortice d’aria che ci schiaffeggiava da ogni lato, senza logica, senza possibilità di resa. Eravamo investiti da una potenza gigantesca, che lottava per farci cadere nell’abisso. Ho chiuso gli occhi per concentrare tutta la mia forza nelle braccia e nelle gambe, aggrappandomi alla scala. Non dovevo cadere, non volevo cadere: lassù nella pedana del trapezio, ne ero certo, avrei trovato una risposta importante, una parola giusta, il regalo finale del mio sogno.
E allora ho sopportato, fino all’ultimo, gli schiaffi del vento. Ho lasciato che mi colpisse, ma non gli ho concesso di farmi precipitare. Ho sentito i graffi sulla faccia, le sberle negli occhi, ma non è riuscito a staccarmi dalla scala che mi prometteva l’altezza. Ho sentito le sue urla, gli insulti, le canzonature, ma non ha potuto corrompere la mia ferma volontà di stare lassù, in vista della cima. Ha lottato con tutta la sua violenza, ma non mi ha vinto.
Quando ho riaperto gli occhi, la bufera era finita, la scala era lontana e io mi sono ritrovato aggrappato alla gondola di una mongolfiera che galleggiava tranquilla nella notte del circo, illuminata da una fredda luna viola di dicembre.
In piedi, al centro della gondola, stava una donna che teneva la mano sicura sul bruciatore. Aveva un aspetto severo, col suo vestito sobrio e i capelli bianchi, ma una grande dolcezza nello sguardo. Chi sei tu, le ho chiesto, che rischi un volo in mongolfiera durante una burrasca?
Si è avvicinata, mi si è seduta accanto.
Io sono una che ha vissuto e ha scritto come mi vedi ora, in volo leggero dentro una bufera, nel Nord e nel Sud del mondo, seguendo senza incertezze le linee spezzate di una personale geografia. Da una piazza alberata di Boston all’oceano a braccia aperte di Rio de Janeiro, dai grattacieli di New York a una veranda nel verde pluviale delle Amazzoni, ho cercato sempre di comprendere le cose, senza prenderle, di toccarle senza afferrarle.
Il mondo mi ha chiamato Elizabeth Bishop, e come a tutti accade, c’è stato chi mi ha amata molto e mi ha protetta, e c’è stato chi mi ha odiata.
Piangere e giocare con le parole a volte sono stati per me niente altro che due lati dello stesso specchio. La lenta contabilità di ciò che ho amato, e di tutto ciò che lentamente ho perduto. Ho pianto e ho giocato, per amore delle case, delle colazioni sul balcone. Per l’amore di un pesce nella rete. Di una falena impigliata nella luce. Per l’amore di una donna, per un’altra donna.
Una cosa così ordinaria eppure sconvolgente.
Lota era un’esplosione tanto quanto io ero riserbo. Era colore di fuoco, quanto io ero trasparenza d’aria. Era impetuosa quanto io ero disperatamente in cerca di comprensione quieta del mondo. Lei costruiva architetture grandiose, io inseguivo piccoli giochi di ritmo e suono. Non potevo non amarla, infinitamente rovescia di me, era esattamente l’altro lato del mio specchio, era il mio volto, ribaltato.
Lota mi manca, infinitamente. L’ho amata, e accanto a lei mi sono amata. E questo basta a dare senso ad una vita intera. Un presente meraviglioso, almeno per un tratto, questo è ciò che conta. Questo è tutto ciò per cui ha senso la battaglia, per cui vale la pena di una irresoluta disubbidienza. Ho voluto Lota al mio fianco, ad ogni costo. Poi è venuto tutto il resto.
L’arte di perdere s’impara presto;
tante le cose col segreto intento
di andare perse, che non è un disastro.
Perdi una cosa al giorno. Con malestro
accetta chiavi perse, un’ora al vento.
L’arte di perdere s’impara presto.
Perdi di più, più in fretta; al peggio apprestati:
luoghi e nomi e dov’è che avevi in mente
di recarti. Non sarà mai un disastro.
L’orologio di mamma ho perso; e questa!
che è l’ultima di tre case nel niente.
L’arte di perdere s’impara presto.
Ho perso due città, belle. E, più vasti,
altri regni, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è poi un disastro.
Anche perdere te (la voce, il gesto
amato) non mi smentirà. È evidente:
l’arte di perdere fin troppo presto
s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro.
Mi ha sorriso, felice di quel suo gioco di suoni in cui aveva nascosto tutta la bellezza tragica del nostro stare, precarissimi, dentro il mondo. Precari come piccole piume in viaggio dentro il cielo.
Mi sono appoggiato al bordo della gondola, ho guardato di sotto l’immenso continente del mio sogno. Visto dall’alto della mongolfiera sembrava ricco di senso, con i suoi bianchi accecanti e le sue oscurità, i boschi, le grotte, le rovine, il mare, il vento, gli immensi archivi, i teatri, le tipografie, i musei. L’infinita città dell’immaginazione era tutta lì, ai miei piedi.
Andiamo, mi ha detto l’Acrobata, ora manca davvero pochissimo. Ho aperto gli occhi, la mongolfiera galleggiava nel vuoto, proprio accanto alla scala. Pochi gradini sopra la mia testa l’Acrobata mi attendeva, Elizabeth come era venuta era scomparsa. La mongolfiera galleggiava leggera nel cielo vuoto.
Questa, ho pensato, è l’immagine giusta per la poesia di Elizabeth: l’amore delle cose, il comprendere senza prendere, il toccare senza afferrare. Amare chi si vuole, a dispetto di tutto. Leggeri, come una parola che se ne sta, impronunciabile, sulla punta della lingua.
[Elizabeth Bishop (1903-1987) è stata una poeta statunitense. Il brano citato è L’arte è solo quella, in Miracolo a colazione, Milano, Adelphi, 2006.]