Canto primo. Dove si narra di come, appena cominciata la salita, i viaggiatori siano costretti a fermarsi per l’improvviso irrompere del buio. E di come in una piccola stanza qualsiasi la poeta polacca Wislawa Szymborska, insegni a inventare la luce dentro il buio.
[Oristano, 3 agosto 2016 – Lux Feminae]
Ogni viaggio è importante più per i suoi imprevisti, che per i passi che rispettano il cammino progettato: questa legge inossidabile vale anche dentro i sogni. Non avevamo salito che pochi gradini, quando all’improvviso tutti i fari del circo si sono spenti, e io mi sono trovato appeso dentro il buio, inchiodato in un’oscurità densa e senza scampo, due mani aggrappate al gradino gelido, due piedi poggiati nel nulla, tutto il corpo avvinghiato al respiro, come unica traccia dell’essere vivo.
Non avere paura, mi ha bisbigliato la voce dell’Acrobata da là sopra, non durerà molto.
Facile dirlo, per un trapezista, le ho risposto. E mi sentivo esattamente come quando, da bambino, dopo la buonanotte la luce si spegneva, e l’oscurità della stanza si popolava di fantasmi spaventosi: ogni barbaglio sulla parete era un mostro vomitato dal muro per venire a mangiarmi, ogni suono un passo dei demoni in avvicinamento.
Non avere paura, ha ripetuto la voce calma, là in alto. Il buio è necessario, ha detto. Poi ha lasciato durare il silenzio nell’oscurità per qualche attimo, scenica, mentre io restavo altrettanto muto, a levigarmi il terrore. Infine ha aggiunto: È necessario, il buio: serve ad imparare l’attesa della luce: non ci sono incubi che non comincino in una selva oscura. Non ha aggiunto altro, e per un tempo che mi è parso complicato e immenso sono rimasto penzolante e solo, senza parole. Infine, un’unica debolissima lampada, ha illuminato una piccola, povera stanza qualsiasi.
Il circo era scomparso: ora intorno a me c’erano solo quattro pareti rivestite di carta da parati a fiori, un tappeto liso al centro della stanza, un tavolino tondo con una scacchiera proprio nel mezzo; un divano che doveva essere stato rosso all’inizio del secolo decimonono, uno specchio d’argento appeso al muro, il vetro di una finestra, sporco di chiazze di tempo, attraverso il quale brillava immensa una luna di gennaio.
La scala era conficcata nel pavimento e inchiodata al soffitto. Sul divano stava seduta una donna. Ho cercato l’Acrobata al mio fianco, per chiederle come dovessi comportarmi. Ma l’Acrobata non c’era. Chi sei, tu, le ho chiesto.
La donna sul divano mi ha sorriso con occhietti piccoli di gatta felice, ha aspirato una boccata dalla sigaretta e poi Domandami ciò che vuoi, ha detto, e proverò a risponderti.
Sono sceso dalla scala, e mi sono avvicinato. Raccontami la tua vita, le ho detto.
In realtà non c’è molto da raccontare, così mi ha risposto. Sono stata poeta, e la vita dei poeti non ha quasi mai nulla di fotogenico, nulla che sia evidentemente singolare. Nascere a caso in un paese che si chiama, per caso, Kòrnik; morire, per caso, in una città che tutti chiamano Cracovia: tra questi due punti fermi, ho percorso un viaggio immaginario che ha nome Wislawa.
Intorno ai vent’anni ho preso la tessera numero 1952 del Partito Comunista Polacco, ho rinnegato il socialismo pochi anni dopo, sono stata punita. Ho insegnato qualcosa, ho scritto qualcos’altro, ho mangiato, ho dormito, sono andata dal medico, ho sognato – forse – un giorno un sogno folgorante, ho studiato, ho lavorato alle ferrovie, ho inciampato in un premo Nobel, ho commesso errori imperdonabili, ho conosciuto l’amore, il lutto, la disperazione e l’incanto.
Per lo più sono stata seduta a questo tavolino, o sdraiata su quel divano, con lo sguardo fisso sulla carta da parati o sul soffitto, di tanto in tanto ho trovato la parola, l’ho scritta, l’ho cancellata, e in mezzo c’erano ore e ore in cui apparentemente non accadeva nulla.
Questa è la vita di un poeta, noiosissimo spettacolo dell’attesa. Eppure, quanta pazienza ci vuole in quella capacità di rallentare, di stare sempre un passo indietro alla corsa della storia, recuperando i detriti abbandonati e facendone bellezza. Non c’è molto altro da raccontare, della mia vita, se non la mia costante volontà di disubbidire al buio, proclamando in ogni tratto dell’esistenza una possibilità della luce.
Così ha detto. Poi mi ha sorriso con un’acrobazia nello sguardo, ha posato sul tavolino la sigaretta e, togliendosi lentamente gli occhiali tondi, ha proseguito guardandomi negli occhi:
Qui sulla terra c’è abbondanza di tutto.
Qui si producono sedie, e afflizioni,
forbicine, violini, tenerezza, transistor,
dighe, scherzi, tazzine.
Forse altrove di tutto ce n’è di più,
solo per certe ragioni di là mancano dipinti,
cinescopi, ravioli, fazzolettini per il pianto.
So bene cosa pensi: qui non c’è nulla che dura,
perché da sempre e per sempre in balìa degli elementi.
Bada però: gli elementi si stancano in fretta
e ogni tanto devono riposare, a lungo, fino alla volta successiva.
E so cos’altro pensi: guerre, guerre, guerre.
Però anche fra loro capitano intervalli.
Attenti! – gli uomini sono cattivi.
Riposo! – gli uomini sono buoni.
Sull’attenti si producono luoghi deserti.
A riposo, col sudore della fronte, si costruiscono case.
La vita sulla terra costa abbastanza poco.
Per i sogni, ad esempio, qui non paghi un soldo.
Per le illusioni – paghi solo se perdute.
Per il possesso del corpo – solo con il corpo.
E come se ciò non bastasse,
si va senza biglietto sulla giostra dei pianeti,
girando a sbafo nella tormenta delle galassie,
in tempi così vertiginosi
che niente qui sulla terra potrebbe fare un passo.
Su, su: osserva bene.
Il tavolo sta dove stava,
sul tavolo il foglio è ancora lì dove lo hai messo,
dalla finestra socchiusa solo una folata d’aria
e neppure una crepa, terribile, sui muri
dalla quale si rischi di essere soffiati via.
Così ha detto, Wislawa, poi ha schioccato le dita come un prestigiatore, e tutte le luci si sono spente. Sono rimasto di nuovo al buio, e dentro quell’oscurità densa e piena di minacce ho sperimentato il puro terrore degli incubi. Quando le luci si sono riaccese, l’Acrobata era di nuovo al mio fianco. Dove sei stata, le ho domandato, sono morto di paura. Non sei morto, mi pare, ha detto lei. E non c’era più altro da aggiungere.
Andiamo, mi ha ordinato, all’improvviso. Dove, le ho domandato. Dobbiamo continuare la salita, mi ha risposto, indicandomi la scala che ora si perdeva lunghissima nel buio. Non mi abituerò mai alle follie di questo sogno, ho pensato, e l’Acrobata mi ha preceduto, e io l’ho seguita, e mentre scalino dopo scalino riprendevo a salire, ho lanciato un ultimo sguardo a quel tavolino con la scacchiera, al divano, alla carta da parati stinta.
Anche dentro il buio più fitto, ho pensato, anche da una stanza misera qualsiasi, un poeta vero sa lanciare lo scandaglio della parola, per trarre a galla il miracolo della luce.
*
[Wislawa Szymborska (1923-2012), è stata una poeta e saggista polacca, Nobel per la letteratura 1996.
Il brano citato è Tutaj (Qui), da La gioia di Scrivere, Milano, Adelphi, 2009 (citata con qualche libertà)].