Canto secondo. Dove si narra di come, lungo la salita, i due viaggiatori siano abbagliati, costretti a chiudere gli occhi e a fermarsi.
E di come in quell’immenso biancore la mistica olandese Etty Hillesum racconti la sua disubbidienza all’orrore.
[San Vero, 4 agosto 2016]
Ero salito solo di qualche metro. L’Acrobata mi precedeva di pochi gradini, lenta e sicura, mentre io combattevo con il terrore di guardare in basso, là dove se appena avessi mancato la presa mi sarei schiantato.
Cercavo di non domandarmi, Cosa sto facendo, perché dentro un incubo non si fanno domande. L’incubo è precisamente quel luogo limaccioso e notturno in cui ognuno di noi si guarda agire follemente.
L’incubo, pensavo, è il luogo dell’inadeguatezza, del buio più fitto. E della sua cura.
È allora che è arrivata l’esplosione della luce, abbagliante e insopportabile incendio elettrico, irrefrenabile invasione del bianco. La catastrofe atomica, ho pensato, chiudendo gli occhi, aggrappandomi alla scala come ad un’ultima folle speranza. Non avere paura, mi ha detto l’Acrobata, tieni gli occhi chiusi e sopporta: anche l’eccesso di luce è una prova.
Quando ho riaperto gli occhi, intorno a noi non c’era più nulla. O, meglio, c’era un nulla bianchissimo, una enorme stanza senza fine. Lei era in ginocchio, vestita di grigio, i capelli raccolti, la stella gialla sul braccio, il volto pallido come una luna di febbraio. Era raccolta sul pavimento, sembrava pregasse.
Mi sono avvicinato lentamente, Chi sei, le ho domandato.
Mi chiamo Esther, ma tutti mi hanno sempre chiamato Etty.
E, credimi, conosco quanta fatica ti costerà scrivere di me: nessun incontro tra tutti quelli che vivrai, ti sarà più difficile da raccontare. Troppa luce, tutta insieme, che non può stare dentro le parole.
Ti aiuterò a dirlo con tutta la semplicità di cui sono capace: mi chiamo Etty Hillesum, sono morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, e ho perdonato i miei carnefici sino ad amarli. Sono stata felice fino all’ultimo, ho lodato la vita fino in fondo, fino all’ennesimo giorno della mia guerra.
Hai visto? Non era difficile dirlo.
No, hai ragione, non è per niente facile scriverlo. Ed è ancora più difficile crederlo. Eppure è proprio così.
Ogni parola che ho detto e ho scritto nella mia vita portava soltanto lì, a quell’istante finale in cui dovevo dire Sono felice, ricca e in pace, la vita è bella e io credo.
Così ha detto, inginocchiata dentro il bianco.
Hai ragione, le ho risposto. È troppo. È troppa tutta insieme, tutta questa luce.
Mi sono seduto accanto a lei e, Prova a dirmi, se puoi, come sei riuscita ad arrivare così lontano, le ho domandato.
Immagina con me, mi ha risposto.
C’è il sole, in questa veranda. E un vento lieve che fa fremere un gelsomino.
È strano. C’è la guerra. Ci sono i campi di concentramento.
Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita, le sue braccia mi circondano, il battito del suo cuore non so descriverlo: così lento, regolare, dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come non dovesse arrestarsi mai, così buono, così misericordioso.
Sono così a buon prezzo i sentimenti di vendetta, vivere solo in funzione di quell’unico momento di vendetta, questo non mi interessa proprio.
Se anche rimanesse un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro questa banda di barbari. Grazie a lui non avremmo il diritto di riversare il nostro odio su un popolo intero.
È proprio l’unica possibilità che abbiamo, non vedo altre alternative: ognuno di noi si deve raccogliere e deve distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. Convinciamoci: ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo non fa che renderlo ancora più inospitale.
Così ha detto. Poi si è alzata, si è tolta di dosso quegli stracci grigi da internata, e in quel preciso istante la luce è diventata così insopportabile che ho dovuto nuovamente chiudere gli occhi.
Nel silenzio degli occhi chiusi ho cercato di comprendere il senso di tutto quell’accecante biancore, Forse davvero l’unica soluzione di fronte alla barbarie è accecarsi al mondo, per guadagnare un altro modo di vedere.
Ora puoi riaprire gli occhi, mi ha detto l’Acrobata, di nuovo al mio fianco. L’ho seguita, mentre si accostava alla scala e ricominciava a salire di là dal bagliore, di là dal bianco, verso la nostra meta, il trapezio che promette il cielo.
Ho ripreso anche io la salita, gettando uno sguardo a quegli stracci grigi con la stella gialla, rimasti abbandonati sul pavimento bianco come un invocazione.
Chissà, ho pensato, se è davvero alla portata di tutti, disubbidire all’orrore.
[Etty Hillesum (1914-1943), è stata una scrittrice e mistica olandese di origine ebraica.
Il brano citato è tratto dal suo Diario (1941-1943), Milano, Adelphi, 1996.]