Epilogo. Dove si narra di come, giunti in cima alla scala, i due viaggiatori devono separarsi. E di come, infine, si sveli uno dei possibili segreti della disubbidienza.
[Nureci, 15 agosto 2016]
Siamo arrivati, ha detto infine l’Acrobata. Ed era vero, la scala era finita.
Ho salito l’ultimo gradino, mi sono fermato sulla piattaforma a guardare il trapezio.
Tu sai quello che devi fare ora, ha detto lei.
Lo so, ho risposto.
Ha preso in mano il trapezio, lo ha maneggiato un attimo, quasi con nostalgia, come uno scettro. Ora è tuo, mi ha detto, ora tocca a te scegliere cosa farne.
E dopo, cosa succederà, le ho domandato.
Nessuno può dirlo, mi ha risposto. Se l’acrobata conoscesse il destino del suo salto, se il pubblico avesse la certezza che l’acrobata si salvi, nessuno amerebbe lo spettacolo del volo.
Siamo stati un attimo in silenzio, entrambi con gli occhi posati in giù, verso l’abisso.
Prima che io vada, ho detto, dimmi perché mi hai regalato questi incontri.
Volevo darti ricordi affidabili, mi ha risposto, per tutte quelle volte in cui spero deciderai di non rispettare un obbligo o un divieto. Non potevo darti una mappa, avrebbe avuto troppo rigore. Piuttosto volevo che portassi con te una costellazione, che è messa nel cielo nostro malgrado, eppure come un oroscopo può guidarci i sogni, senza nessuna ambizione di completezza.
Infatti mi hai lasciato addosso fame di altri incontri, le ho risposto.
È giusto così, ha detto lei, solo la fame ti terrà sveglio e in cammino.
Ma chi sei tu, ho domandato allora, non posso andarmene senza conoscere il tuo nome.
Ha sorriso, come se si aspettasse da molto tempo quella domanda e, Molti secoli fa mi chiamavo Saffo, mi ha risposto, ho scritto poesia quando non era affatto scontato che una donna potesse scriverla. Ho conosciuto come nessun altro i sintomi dell’amore, ho amato Attide e Faone, il profumo del giglio e il biancore della luna. La leggenda dice che mi sono lanciata da una rupe per il furore della gelosia. Sono sciocchezze. Ora tu sai che Saffo, l’acrobata, non ha mai sbagliato un lancio.
Ora dimmi, mi ha domandato, alla fine hai trovato la parola che cercavi?
Sì, credo di sì, le ho risposto. La disubbidienza ha mille volti, ma spesso non è altro che coraggio in incognito. Dietro ogni frutto proibito c’è un paradiso d’incoscienza a cui si deve rinunciare.
Capire è soffrire, mi ha risposto con il sorriso asimmetrico del suo volto greco. Così dicevano tutti, molti secoli fa, nelle peggiori bettole del porto di Lesbo.
Ora lànciati.
Facile dirlo, che la disubbidienza è il vero volto del coraggio. Facile dirlo, quando non hai l’abisso sotto i piedi, e un trapezio in mano. Coraggio, mi sono detto, abbi coraggio. In fondo si tratta solo di disubbidire alla forza di gravità, di avere fiducia nel vento.
Ho indietreggiato, ho preso la spinta, mi sono lanciato nel cielo bianco e rosso del circo. E in un attimo non ho più avuto niente di rassicurante sotto i piedi, solo aria, aria immensa nelle mani e nel respiro, aria dentro le parole. Ho sentito l’Acrobata che da lontano mi diceva, Non avere mai più paura: il segreto della disubbidienza sta tutto nella forza dello slancio.
E in quell’istante ho finalmente compreso: la forza che tiene in cielo gli acrobati è la stessa che disegna le orbite degli astri. Bisogna pensare che la caduta sia solo una delle tante possibilità, forse la più remota: è l’amore del volo che guida le anime disubbidienti.
Ed è davvero, senza possibilità di errore, proprio lo stesso amore che muove la luna, e le sue stelle.