Intermezzo
Di come, lungo la salita, i due viaggiatori si fermino a riposare su una piattaforma che sembra un giardino.
E di come, nel giardino, non avvenga nessun incontro, e non si trovi nessuna risposta.
[San Vero, 12 agosto 2016]
La scala saliva dritta verso l’apice della tenda, nella notte deserta del circo: l’Acrobata ed io salivamo, dritti con lei, verso quel vertice acuto. Ero esausto, di una stanchezza rischiosa: mancare un gradino e scivolare nel buio da quelle altezze sarebbe stato un imbarazzante, triste finale. Stavo per implorare la mia guida di sostare un poco quando, Ci fermiamo qui qualche minuto, ha detto. Ho guardato in alto, grato. L’Acrobata mi aspettava in piedi su una piattaforma che si sviluppava proprio a ridosso della scala. Con le ultime forze ho scalato i gradini che mi mancavano per raggiungerla, sono saltato sulla piattaforma, mi sono seduto a riposare.
La piattaforma era vasta, ricoperta di terra e di piante. Vicino alla scala le piante erano poco più che arbusti, più ci si allontanava dai gradini più divenivano alti alberi, colmi di frutti. Nella stanchezza gigantesca della salita, quel piccolo terrazzo ricolmo di verde mi è parso il giardino perduto del paradiso terrestre. L’Acrobata si è addentrata nel piccolo frutteto, quando è tornata mangiava una mela, ne ha portato una anche per me, Mangia, ha detto, e dissetati, che per l’ultimo tratto di salita ti serviranno tutte le forze. Ho mangiato anche io la mela del giardino, e ho continuato a guardarmi intorno.
Chi incontreremo, qui, ho chiesto alla mia guida.
Nessuno, mi ha risposto lei. Riposati, e non pensare a niente altro.
Che strano, mi sono detto fra me. Dopo tutta la fatica dell’ascesa, dopo tutti questi incontri, l’ultima cosa che mi aspettavo era una pausa, un momento in cui non succede niente.
Non è vero che non sta succedendo niente, ha detto l’Acrobata. Sta succedendo il silenzio, la quiete, l’attimo in cui ci si raccoglie a pensare, a riguardare quello che è successo prima. Per imparare servono anche gli spazi vuoti, ha continuato, le esperienze hanno bisogno di respiro.
Ho finito la mia mela, senza rispondere.
Nel cielo non c’era luna. Il giardino, nel buio azzurro, sembrava un fondale marino.
Mi sono disteso sull’erba, l’Acrobata si è seduta al mio fianco.
Non volevi neppure cominciare questa salita. Ora dimmi: come ti senti, mi ha chiesto all’improvviso.
Non sono riuscito a rispondere subito, non era una domanda facile.
Ora sono contento di averti seguito, di essere arrivato fino a qui, ho risposto, e ho impazienza di salire ancora. Ma conservo in me anche molta paura di non riuscire, di precipitare.
Impazienza e paura, ha detto lei, vanno sempre insieme, quando l’acrobata si prepara al lancio.
Ma io non sono un acrobata, ho protestato.
Forse lo diventerai, mi ha risposto, chi può dirlo. Ma non è per farti diventare un trapezista che ti sto portando così in alto. Né tutti i nostri incontri servono a trasformarti in un eroe di questo circo.
E a cosa servono, allora, ho domandato facendomi coraggio.
Non lo so, mi ha risposto, spiazzante. O forse lo so ma non è bene che sia io a dirtelo. Tu, da qualche parte di te, dovresti saperlo.
Mi dà sui nervi, a volte, l’Acrobata. Mi guarda fissa, mi indaga gli occhi per cercarmi l’intelligenza, quindi distoglie lo sguardo, come a dire No, non l’ho trovata. Poi torna a guardarmi, quasi pentita, con più dolcezza, e sembra dirmi No, invece l’ho intravista, l’intelligenza, ce l’hai. È solo molto immatura, sali ancora e capirai. Non mi ha detto più niente, si è distesa anche lei sull’erba, abbiamo guardato insieme il cielo senza luna in silenzio, per un tempo innumerabile.
Forse ho dormito, forse no. Non so se sia possibile dormire e sognare, dentro un sogno.
Quello che è certo è che in quella pausa liquida e marina, nella notte del circo, ho ripensato a tutta la strada percorsa, ho rivisto tutte le donne disubbidienti che avevo incontrato, tutte le loro lune, ho ripensato ai cammini, alle vittorie e alle sconfitte, ai sentieri incominciati e ai tesori della memoria, alla forza nel corpo, alla dismisura nell’immaginazione, ai prezzi di solitudine e disequilibrio che a volte si pagano per la fermezza di una scelta. Le ho riviste tutte insieme, ho provato a capire cosa le unisse, ho cercato di pronunciare, nel giardino abbandonato, il vero nome della loro disubbidienza. Volevo trovare a tutti i costi la parola giusta, ma non mi è venuta in mente, non ancora, non dentro l’azzurro riposante del giardino.
Ora andiamo, ha detto l’Acrobata rimettendosi in piedi. C’è ancora un po’ di strada da fare.
Non ho trovato la risposta, le ho detto, mentre ci avvicinavamo di nuovo alla scala.
L’essenziale, mi ha risposto lei, è che tu abbia trovato la domanda. E abbiamo ricominciato a salire.