Prologo. Dove si racconta di come, al termine di una serata alcolica, l’autore non riconosca più la propria stanza, trasformata in un gigantesco circo. E di come, senza logica apparente, nel circo avvenga l’incontro con l’Acrobata, angelo della vertigine.
[Bauladu, 2 agosto 2016]
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Di solito la mia stanza ha il soffitto basso: due metri e settanta regolamentari, il minimo di legge, che se fai palazzi alti ti viene un piano più. La mia stanza, di solito, sono quattro metri per quattro, giusta giusta esatta per farci stare un letto, un armadio, una scrivania; io ho riempito una parete con una libreria, grande, traboccante, ci ho stipato i libri letti e quelli, tantissimi, che devo leggere ancora: non mi basteranno altre cinque vite per imparare a smettere di comprarli. Nella mia stanza, di solito, di là c’è la finestra, perché si veda paesaggio lontano, nuvole a stormi, un po’ di monti e nebbia; che non si riesce a scrivere, senza un po’ di lontananza negli occhi, e nel cuore. La mia stanza, di solito, quando si fa notte ha luce bassa di lampada da tavola; che nella penombra le immagini giuste si immaginano meglio.
Di solito è così, la mia stanza. Ma non sempre.
La mia stanza, a volte, sa cambiare forma. È questione di dettagli minimi, ma cambia. A volte cambia solo impercettibilmente la curvatura del soffitto, a volte mi fa un dispetto, e mi sposta il letto. A volte fulmina tutte insieme le lampadine per rabbuiarmi in un inganno. A volte fa più bianche le pareti, per abbagliarmi in un rimpianto. A volte si inchioda in volo, per precipitarmi inaspettatamente nell’abisso. A volte si alza, si alza, in rollìo e beccheggio, per darmi mal di mare nella notte, levare l’ancora, e portarmi al largo.
Non so perché lo fa. Ieri, per esempio, ieri la mia stanza si è offesa.
Sarà che dopo tutta quella festa, e la musica, e il poco d’alcol che non reggo, ieri sera ci ho messo un sacco di tempo a tornare a casa, non riuscivo a trovarla. La strada che percorro di solito era chiusa, divieto di transito, c’era scritto. Allora ho fatto un altro giro e mi sono perso. Era un labirinto, la strada, ieri notte: tutto un divieto di passaggio, un obbligo di precedenza, un senso vietato, un obbligo di svolta, un divieto di sosta. Sarà stato l’alcol che non reggo, ma neppure il minotauro a Cnosso era così in difficoltà a trovare la strada di casa. Insomma, alla fine ho pensato di mollare l’auto da qualche parte e di tornare a piedi ma, Divieto di transito pedonale, c’era scritto su un cartello che mai prima avevo notato. Era un inferno, la strada, ieri sera.
Quando finalmente sono arrivato a casa era notte alta, e la mia stanza nel frattempo si era infuriata.
Era diventata alta altissima, vertiginosa d’altezza, un’ immensa stanza vuota, con la sabbia sul pavimento – che ci fa tutta questa sabbia accanto al letto, ho pensato. E i cavi tesi, tesi in alto a reggere la tenda, e la lampada non c’era, e al posto della lampada c’erano solo milioni di fari lanciati verso il cielo, ma non era un cielo, era un tendone immenso a righe bianche e rosse: Dio, oggi la mia stanza mi ha fatto uno scherzo davvero gigantesco, ho pensato, altro che due metri e settanta minimo di legge, e al posto della finestra erano poggiati, pieni di polvere tutti gli strumenti dell’orchestra e il cappello a cilindro di un direttore in sciopero. Ho girato lo sguardo in lungo e in largo, e per un attimo, in cima al tendone, mi è parso di intravvedere il gabbiere.
Ma questa non è una nave, mi ha gridato la voce da là sopra, Questo è un circo. Per quanto a ben vedere – ha proseguito – non ci siano poi così tante differenze: anche un circo è sempre in viaggio, e la risacca è in ogni attimo dietro l’angolo.
Ho fissato là in alto, quella figura piccola e agile lanciarsi, l’ho guardata volare verso l’abisso, gettata nel miracolo di una vita nascosta dentro la morte, l’ho guardata afferrare il trapezio e oscillare come un piccolo pianeta dentro il cielo a righe rosse e bianche. Il re dell’universo è l’acrobata, ho pensato, ogni muscolo allenato a eseguire millimetricamente gli ordini dell’anima. Volava, l’acrobata, nella mia notte alcolica di un circo deserto, volava d’un balzo da un trapezio all’altro, disegnando lune nuove e costellazioni ignote ad ogni galileo del mondo, qual è il momento esatto per lasciare la presa e affidarsi al vuoto?
È tutta questione di desiderio, mi ha risposto, rimbalzando sulla rete: né troppa frenesia del cielo, né troppa ansia della terra. L’acrobata, proprio come il poeta – così ha continuato venendomi incontro – deve solo imparare la leggerezza giusta, e ambigua, tra la carne e il sacro.
In alto, il trapezio oscillava, vuoto. Pura memoria del distacco dell’acrobata dal cielo.
Non è bella, l’Acrobata. Ma si starebbe ore a guardarla. Ha un volto asimmetrico che sa di scoglio marino, i capelli raccolti sono umidi di fatica, impiastricciati di brillantini, il trucco è stinto; ha muscoli forti, allenati a non temere la libertà abissale del volo; le ossa sporgenti, acuminate come gli arti perfetti di un insetto.
Chi sei, le ho chiesto.
Sono il tuo sogno di oggi, mi ha risposto.
Chi sei, ho ripetuto.
Sono nata su un’isola, e come ben sai questo è già un principio di solitudine. Sono una donna, ha continuato, e come ben sai questo mi condanna a stare nell’altra metà del cielo. Sono stata una poeta e ho avuto molti nomi, uno diverso per ogni giorno della mia vita.
A volte erano nomi d’arte che inventavo secondo il colore del mattino; più spesso erano nomi di altre donne, che ho amato perché avevano saputo essere ciò che io forse non sarei stata mai. Potresti avere letto molti di questi nomi, tra i libri che affollano la quarta parete del tuo circo.
Mi ha sorriso, l’Acrobata, che non è bella, ma negli anni ha imparato come obbligarti a guardarla. Poi si è ingrassata le mani, e ha cominciato a salire, di nuovo in alto, scalino dopo scalino, verso la piattaforma che si perdeva, lontanissima, accanto alla luna, in cima al cielo.
Si è fermata un attimo e mi ha chiesto, Non vieni?
Ho paura delle altezze, le ho detto, mi danno vertigine.
Non uscirai da qui se non lanciandoti, mi ha risposto, Questo è un incubo, dopo tutto, e se può rassicurarti, qui dentro non si può morire per davvero.
Non posso salire fin lassù, ho obiettato.
E perché, mi ha domandato.
Perché c’è il divieto, le ho risposto, indicandole il cartello «Vietato salire», rosso e in evidenza proprio accanto alla scala.
È proprio per questo che il dio dei sogni, ammesso che ne esista uno, mi ha mandato da te. Un po’ di talento ce l’hai, ma non hai ancora imparato davvero l’arte della disubbidienza.
Ha preso il cartello, lo ha staccato dal suo palo, lo ha nascosto sotto la sabbia.
Ora puoi salire, il divieto non c’è più, mi ha detto, e aveva voce antica di alghe e di sale.
Io ho guardato la sabbia, l’orchestra vuota, la parete dei libri, la platea deserta.
Ho pensato, Se sopravvivo, questo sarà un viaggio da raccontare.
E lentamente, senza guardare sotto, implorando il dio dei sogni di regalarmi al più presto un paio di ali, ho cominciato a salire.