DromosFestival

#1 DROMODIARIO. [La prima volta]

29 agosto - Mogoro - Ibrahim Maalouf, Illusions

Che poi sembra davvero ieri, che è finito Dromos. L’altro, quello dell’anno scorso. Quello di quando sono salito su questo palco la prima volta. Ed era proprio questo palco, qui, a Mogoro, sopra un tappeto volante, davanti a questa chiesa, di fronte a voi. Che c’era senz’altro, qualcuno di voi, l’anno scorso, a sentire Carmen Souza, nel primo giorno di Dromos.

Il primo giorno. La prima volta.


La prima volta che ho unito i punti tra le stelle, e ci ho letto una parola.

La prima volta che ho dato un morso ad una mela.

La prima volta che, guardandoti, ho pensato Tu, tu stammi accanto sempre.

 

Che poi uno non ci pensa mai, mentre sta vivendo, però ogni nostro istante arriva lì per la prima volta, e se ne va, e a noi ci tocca prenderlo o perderlo, banco vince banco perde, come in un giro di roulette, rien ne va plus.

Cioè, non è che uno non ci pensa proprio mai mai. Però diciamo che un po’ tutti cerchiamo di pensarci il meno possibile, ai piccoli piccoli istanti paradisi che perdiamo uno dopo l’altro, tic, tac, rien ne va plus.

 

La prima volta che ho sbucciato le ginocchia, e ho pianto fino a saziarmi.

La prima volta che ho visto occhi chiusi per sempre.

La prima volta che mi hanno detto No, questa volta no.

 

Per fortuna a volte la ruota compie un giro intero, e si ricomincia. Come oggi, qui, che ricomincia il viaggio Dromos, da Mogoro a Nureci, proprio proprio come un anno fa.

Che era di sedici agosto, quando sul palco di Dromos a Nureci, l’ultima ultima notte è salito sul palco Bo Weavil, e io ho pensato È l’ora di conoscere il blues francese. Che io non lo conoscevo per niente, il blues francese. Prima di sentire Bo Weavil, pensavo avesse suono malinconico, proprio suono di rien ne va plus. E invece no. È stata una festa, che se c’eravate almeno il piedino non siete riusciti a tenerlo fermo un attimo. Perché il blues è sempre musica che trasforma il dolore in opportunità, c’è sempre un sorriso, dietro il suo pianto. Anche quando il pianto è masticato in francese, ne me quitte pas.

 

La prima volta che ho pronunciato la parola ‘clessidra’.

La prima volta che ho camminato, un passo dopo l’altro.

La prima volta che ho visto l’altro lato, il più bello, il più nascosto.

 

Che poi l’anno scorso questo festival si chiamava Krìsis. E siccome non c’è moneta che non abbia due volti, siccome non ci deve essere crisi senza rinascita, siccome non può esserci ferita senza guarigione, che altrimenti le storie non funzionano, quest’anno il nome è Eden. Che vuol dire giardino, ma vuol dire soprattutto la prima, la primissima volta in cui tutto è cominciato.

 

La prima volta che mi hanno portato al mare, e tutta quell’acqua me la volevo bere.

La prima volta che ho capito che ci sono linee talmente storte,

che non si può sfuggire al dovere di raddrizzarle.

 

Per esempio, oggi su questo palco sale Ibrahim Maalouf, che è nato a Beirut, nel 1980. A Beirut, nel 1980, piovevano le bombe d’Israele, crollavano i tetti, si moriva per un niente. Era l’inferno sulla terra, Beirut, nel 1980. Era la striscia di Beirut, la prima volta, il primo sguardo di Ibrahim sul mondo. Prendere o perdere, banco vince banco perde, la vita sotto le bombe è, allora come oggi, un giro di roulette, rien ne va plus. Su centinaia di bimbi che ogni istante, anche in questo preciso momento, muoiono, ce n’è qualcuno che si salva. Forse anche solo per ricordarci quanto è folle tirare bombe addosso alla possibilità di un paradiso. Ogni tanto c’è un bimbo che si salva.

Ibrahim è uno di quelli che dalla guerra si sono salvati. Babbo e mamma lo hanno portato via da lì, via dall’inferno, a studiare in Francia la tromba, e la cultura del suo popolo. A studiare l’Eden della convivenza tra le culture diverse. Oggi Ibrahim suona i quarti di tono della musica araba, dentro una tromba meticcia costruita apposta. Glielo ha insegnato suo padre.

 

La prima parola che ho imparato.

La prima che ho scritto.

La prima volta che ho pensato Chi e perché ha disegnato i confini?

 

Forse è questo, in fondo, il modo per cominciare a costruire il giardino dell’incanto: domandarsi il chi e il perché, il cosa e il come, per pulire lo sguardo, e tornare a vedere tutto con gli occhi della prima volta.

Che, forse, davvero, il segreto del giardino comincia da qui, da quel consiglio bisbigliato di Mark Twain: fai tutto come fosse la prima volta,

 

balla come se nessuno ti stesse guardando,

canta come se nessuno ti stesse ascoltando,

 ama come se non ti fossi mai ferito,

vivi come se il paradiso fosse qui, sulla terra.

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