Che poi io, quando arriva l’ultimo giorno, quando arriva la fine, sono sempre dentro una crisi gigantesca. Che inevitabilmente penso a tutto quello che non riuscirò a dire, che non sono riuscito a dire. Penso, malinconicamente, a tutto ciò che resta fuori dal racconto. Non so se capita anche a voi, questa certezza di avere sbagliato, certamente, da qualche parte. Che se ci pensate, ogni cosa che facciamo, non è mai niente altro che una prova, una prova che non finisce mai, e anche quando cerchiamo di farlo nel modo più giusto e onesto, non è se non un tentativo di bellezza, infinito. Infinitamente imperfetto.
Imperfetto, come quando al quadro manca una pennellata, e tu non sai quale.
Imperfetto come il libro che non hai voglia di finire.
Imperfetto come le linee quando ti vengono storte,
come le bugie, con le gambe corte.
Ecco, ieri mi sentivo proprio così, quando sono arrivato a Nureci, con un senso profondo di mancanza. E anche le strade, i murales, l’acqua, che sono cose così belle di questo piccolo paese miracoloso, ecco ieri non mi bastavano. Mi sentivo ancora, e ancora mancante. Che poi è esattamente quello che ci fa mettere i passi uno dietro l’altro, che se fossimo sazi staremmo immobili.
Insomma, prima del concerto di Bombino ero lì, perso dentro queste malinconie. Sarà stato anche che ho messo un po’ troppo a lungo gli occhi dentro i suoi occhi, e ci ho visto una tristezza, in quell’uomo del deserto, un’oscurità che mi mancano le parole per dirla. Anche mentre parlava con il pubblico, giù nella piazzetta, Goumar se ne stava lì, vago e un po’ inconcludente, non rispondeva veramente alle domande. Sembrava stanco, ma di una stanchezza che non viene dalla fatica del lavoro, viene da più lontano, da molto lontano. Ma poi, se c’è un posto giusto per imparare la musica, quello è il deserto, così ha detto, a un certo punto, ed è lì, che, anche se in modo imperfetto, ho cominciato a capirlo, Goumar.
Che l’imperfetto è vivo, è sporco, è in movimento,
l’imperfetto è verbo che non si ferma, è corsa che non rallenta
è l’acqua che dilava, e andava, andava, andava.
Camminava davvero, la notte, ieri sera, che appena il concerto è cominciato subito ce ne siamo andati con Goumar a cavalcare sulle dune, ed è arrivato il sole, di quelli enormi, rossi, nella lontananza bollente. E la voce si arrampicava, aspra, imperfetta, su, su, a volo d’aquila sulle distese ocra. Che solo l’imperfetto in cui si nasce ci dà la forza di correre, per fuggire, per nascere ogni momento in qualche altro volo del mondo. E Goumar suonava, cantava, e ci regalava ipnosi dentro le note sempre, sempre, sempre ribattute, e accelerate ancora, ancora, fino a prendere davvero il volo, il volo allucinato, il volo senza controllo, il volo abissato, sfrenato, in cerchio, in cerchio, in cerchio, e niente più peso alle caviglie, e niente che impedisca il volo, il volo, niente che ci tenga qui, e gira gira gira, tondo, tondo, il suono, il tuono, il fumo, il fumo, e il mare, proprio il mare della gente, e il sogno, il sogno accelerato, il sogno allucinato, il sogno salvo, finalmente, e danza, danza, danza, danza, danza.
Che è l’imperfetto, se ci pensi, che ci scalmana,
che ci fa ballare in tondo, ci fa urlare.
È l’imperfetto che ci sfida, ogni giorno, ogni giorno, a ricominciare.
Ero così stanco, dopo, così stanco. Rende così stanchi, la vertigine.
Di una stanchezza che non viene dalla fatica, ma viene da molto, molto più lontano. Viene, forse, dall’intravedere, in maniera incompleta e imperfetta, tutto lo sforzo che fa, il mondo, per stare lì, per stare qui, così come è, come lo vediamo sotto i nostri passi, imperfetti, ogni giorno.
E mentre tornavo, stanco, nella notte, ho ripensato a tutto quello che è successo in queste tre settimane, ho ripensato a tutto quello che ho visto, a quello che ho raccontato e a quello che ho tenuto per me. E rivedere tutto, tutto insieme, mi ha dato ancora, e ancora più vertigine. Che a volte è giusto soffermarsi sui dettagli, ma a volte, a guardare tutto, tutto insieme, si capiscono molte più cose.
Provate a pensare a un albero di Mogoro, che ha sentito mille persone fischiettare nella notte; alla tromba di Ibrahim Maalouf, che cerca da sempre un suono che metta insieme la tour Eiffel e il sapore del cedro; le mani di Lavinia Viscuso, che si allenano ogni giorno a far volteggiare i bicchieri, perché sanno che la disciplina fa la bellezza; una bambina che dormiva accarezzata dal vento, su al nuraghe Cuccurada, e che inspiegabilmente quel vento se lo ricorderà sempre; gli occhi di Antonio Farris, che piangono per onorare la vita, mentre lui cerca il mare e i velieri e le balene, dentro il suo contrabbasso; il violino di Erica Scherl e la tinozza di Valerio Corzani, e il loro viaggio ipnotico, tra un giardino di pietre e una grotta in mare aperto; chi potrebbe stare un’ora a perdersi dentro un giardino dipinto, per cercarci dentro la strada che porta altrove, e nell’altrove giusto; chi non ha paura di perdere saggezza, per ritrovare innocenza, e suona dentro il flauto tutti i suoi sogni; e gli occhi grandi di Ivo Fenu, che hanno scelto quel giardino dipinto e quell’uomo con il flauto, per regalarci ancora un pezzo di sogno; i ragazzi del Centro di Salute Mentale che quando hanno preso in mano per la prima volta una macchina fotografica, ci hanno scoperto dentro il proprio sguardo; l’uomo e la donna che camminano per il giardino, mano nella mano, e si promettono silenziosamente un per sempre; una bicicletta che ha quasi trent’anni, e che non smette di aspettarmi, scricchiolante; il sorriso di Harold Lòpez-Nussa, che mentre suona gioca a nascondino, sul palco, col fratello; e una fontana che anche adesso, proprio ora, compie il suo dovere, e ci regala il miracolo dell’acqua; un vecchio leone d’Africa che si chiama Dibango, e conosce il potere dei fulmini, e ci gioca, cantandoci insieme; le mani di Martin Tingvall che aprono un foglietto stropicciato, e poi tornano timide e leggere, a suonare; un pianoforte su cui si specchia un bosco, e il giorno dopo un mare, un pianoforte che ha imparato l’inesauribile bellezza del viaggiare; una città di pietra, che guarda cadere le stelle e pensa al tempo, e a quando era giovane e c’erano i bambini, e i gatti, e i suoni delle botteghe; una città che pensa a quanto è bella la pioggia sulle sue strade; una città che si specchia nel suo mare; una donna che si chiama Dee Dee Bridgwater, e che adesso ha dentro la voce quella città di pietra, e quel mare; gli occhi di Alessandro Rossi, perduti dentro il verde, e i suoi bambini, e i suoi orti; il girasole che cresce per fare ombra sul ricordo del muro di Berlino; ogni uomo che grida le sue ragioni in faccia a un’autorità cieca e muta; Paola Gaidano e i suoi numeri che sono calcoli che non tornano, e la sua forza che gioca a spezzare la matematica, e la sua speranza di far tornare prima o dopo i conti; tutti i campanacci e i bicchieri di latte che fanno calde e consolanti le mattine; e tutte le bandiere disegnate con color fratellanza, e tutti gli striscioni scritti con color giustizia; Estela, che può ripiegare, finalmente, il suo fazzoletto bianco, ma non può mettere nel cassetto la forza della sua battaglia, che è ancora lunga; la ragazza che balla sotto il palco, ed è e sarà sempre una ragazza, qualunque sia il numero dei suoi anni; e il bambino che guarda dappertutto, e non ha paura di perdersi nulla; e la luna, che illumina sempre e comunque le notti, anche quando è difficile ritrovare la strada; l’olivo di Villanova, e i suoi mille anni che non gli bastano ancora, il suo silenzio, il suo buio pieno di storie e di racconti: è per ascoltarli che mi sono così tanto distratto, nella notte di Karl Hector; gli otto fratelli di Chicago che vanno in giro per il mondo a regalare la gioia urlata della loro strada, e il brusio di chi parla, e non ascolta, e si distrae, e mangia lorighittas, che anche quello fa parte del gioco; una donna che si chiama Tania, e che corre ad abbracciare un ragazzo per regalargli un gesto che consola; quella stessa donna, che pedala lungo una laguna, e insegna ai figli la bellezza di un sole che se ne va per ritornare; e Cipo, e Luca, e Giulio, e Pina e Maria Antonietta e insieme a loro tutti quelli che sono compagni del viaggio di qualcuno, che tutti siamo sempre in viaggio, e a nessuno piace davvero viaggiare solo; e tutti quelli che non si vedono, e stanno dietro il palco, e lo fanno funzionare per bene, e ce li dimentichiamo sempre, e invece senza di loro che lavorano là dietro nulla esisterebbe qua davanti; e un fotografo che si chiama Gigi e insegue l’attimo, perché non si perda; un altro fotografo, che si chiama Alberto, e che invece sceglie di tenere per un poco la macchina ferma, che ci sono istanti che è importante lasciare andare; un ragazzo di diciassette anni, che ancora non sa dove posare lo sguardo, e che un giorno capirà che non bisogna mai smettere di cercare, perché il posto giusto dove posare gli occhi si chiama altrove; un altro ragazzo che ha perduto il suo altrove, e che presto imparerà che da lì, dalla perdita, comincia davvero il cammino; e Francesco Piu, che ha trovato il suono del mondo dentro la sua chitarra, e da lì è partito per andare dritto al cuore; e Goumar Almoktar, appena ieri, e la sua stanchezza di deserto, e la sua forza di fuggirne via, girando, girando, girando, senza smettere mai di girare, che è così che il tempo si ferma davvero; e poi Salvatore, l’uomo che ha deciso di fidarsi di me, e non smette di lasciare spazio alla libertà delle mie parole; il grazie che gli devo, il grazie che sempre si deve a chi ci accoglie, ci incoraggia, ci dà energia per tentare il volo, un volo nuovo ogni giorno; e infine pensate a tutti voi, tutti noi qui, ognuno con i sogni nascosti o dichiarati, ognuno con una forza grande chiusa da qualche parte, ognuno con il proprio dolore, e amore, e innocenza da non perdere.
Ecco, se siete riusciti a vedere tutte queste persone, tutti questi momenti, tutti questi giardini, forse riuscite a vedere anche voi che proprio ora, adesso, in questo preciso momento, tutta questa bellezza imperfetta è un Eden possibile che sta salvando il mondo.