Lettera di Ahmad Shamlu al suo carceriere
dove si comprende quale sia, in realtà, il delitto
Mio caro (sì caro, proprio tu che sei là fuori e mi sorvegli),
dice che la prigione dovrebbe insegnarmi ad odiare il mio carceriere. Non è vero: perché poche cose definiscono ciò che io sono quanto te, che sei colui a cui io mi oppongo. Potrei perfino arrivare ad amarti: la tua forma disegna la mia, il tuo modo di definire il mondo mi aiuta a disegnare quello che io voglio abitare, un giorno. Il fuoco scalda solo chi conosce il ghiaccio. Il mare esiste solo se c’è una riva da cui guardarlo. Solo se ride in faccia alla morte, la vita ride davvero.
Non fraintendermi: non arrivo a dire che sono felice che tu esista. Il mondo sarebbe infinitamente migliore senza carcerieri, senza penitenziari, senza giudici corrotti, ministri ossequiosi e tutte le infinite figure della gerarchia che sale da me, dall’ultimo dei prigionieri, fino al supremo ayatollah. Eppure, ogni volta che penso al mio carceriere, m’impongo di ricordarmi che non posso odiare chi mi fa conoscere meglio me stesso.
Pensa che oggi ho scritto una poesia, pensando a te, alla tua faccia dura, al tuo resistere immobile, lì, dietro la porta della cella, senza neppure l’ombra di un dubbio: grazie a te ho compreso meglio chi sono, e quale sia il senso della colpa che voi tutti mi attribuite.
La poesia dice, più o meno, così:
Qui c’è un labirinto di prigioni, / in ogni prigione miriadi di sotterranei,
in ogni sotterraneo innumerevoli celle, / in ogni cella schiere di uomini in catene.
Uno di questi uomini / convinto dell’infedeltà della moglie / le affondò profondo nel cuore il suo coltello.
Un altro di questi uomini / in cerca diperata di pane per i figli, fece una carneficina
nella calura infuocata del mezzogiorno estivo.
Alcuni di questi uomini / un giorno quieto di pioggia / strangolarono l’usuraio.
Altri, nel silenzio del vicolo / si mossero furtivi sopra i tetti.
Altri ancora / razziarono denti d’oro a mezzanotte / da tombe fresche.
Ma io. Io nessuno ho assassinato / in una notte scura e tempestosa.
Ma io. Io mai ho assalito l’usuraio. / Ma io. Io non mi sono mai mosso furtivo sopra i tetti.
Qui c’è un labirinto di prigioni, / in ogni prigione miriadi di sotterranei,
in ogni sotterraneo innumerevoli celle, / in ogni cella schiere di uomini in catene.
Assorto in fantasie, io non li ascolto.
Cerco invece l’eco flebile / della canzone infinita: l’erba del deserto
che spunta, avvizzisce, secca, si disperde nel vento.
Ma io. Io, non fossi qui in catene / un giorno all’alba / come un ricordo sepolto,
lascerei questo luogo spregevole, freddo, rumoroso.
Ora so che è questo, il mio delitto: è la pretesa di innocenza
la vera colpa della mia coscienza.
* * *
Amhad Shamlu, uno dei massimi poeti iraniani contemporanei, è stato un attivista per la libertà di pensiero e contro la censura sia durante il governo dello Scià, sia nella repubblica islamica dell’ayatollah Khomeini. È stato imprigionato per due volte, e più volte si è autoesiliato dal proprio paese. Per molto tempo le sue opere sono state proibite in Iran. La poesia inserita nella lettera è stratta dalla raccolta The Garden of Mirrors (1959).
Foto: Alessandro Melis, “In buona e cattiva sorte” (miniera abbandonata, aprile 2010).