DromosFestival

[Mogoro 30.07.2017] #prologo

Lettera di un prigioniero ignoto a sua madre

dove si spiega come ci si salva dalle prigioni, raccontando

  

Madre mia,

eccomi qui. Alla fine è accaduto davvero: ce l’hanno fatta, mi hanno preso; l’inseguimento è stato lungo, ma alla fine ci sono riusciti. Bravi. Sono stati più furbi di me. Ora il problema non è più fuggire: è come rendere accettabile la prigionia.

No, no, no, ti prego, ti prego. Non cominciare con i tuoi “te l’avevo detto”, i tuoi “mi fai sempre preoccupare”, i tuoi “mi raccomando”. Non voglio iniziare il mio epistolario con la solita lettera del prigioniero che rassicura la madre. Che poi non c’è niente di cui devo rassicurarti: la vita del recluso in gran parte non si sceglie. Per lo più, è un destino. E come tutti i destini, ha in fondo una destinazione che non è facile cambiare: il biglietto si prende all’inizio, ed è di sola andata.

Fra due giorni c’è l’udienza, la condanna è certa.

Accettala: io troverò il modo di stare bene, anche là.

 

Lavorerò su me stesso. Mi laverò ogni giorno. Farò ginnastica. Ricorderò chi sono.

Canterò nel silenzio. Sorriderò ai ricordi più belli. Piangerò se sarà necessario.

Sopporterò ogni pena. Non mi perderò d’animo. Leggerò moltissimo.

 

Chissà se dentro il carcere c’è una biblioteca.

Quella dove andrò è una prigione grande quanto il mondo, e tutte le grandi prigioni hanno grandi biblioteche, anche solo per il gusto di pronunciarne il nome: Alcatraz Library, Biblioteca di Rebibbia, Bibliothèque de la Cayenne. Pensa: dice che a Guantanamo c’è una collezione di ventimila volumi: hanno di tutto, dall’Odissea a Harry Potter, dal signore degli Anelli al Corano, e dalla Bibbia a Alice nel paese delle Meraviglie. Chissà se è vero. È vero in ogni caso: ci sono migliaia di libri da scrivere, milioni di lettere nascoste dentro il cervello di ogni prigioniero.

Nascoste dentro il mio cervello.

 

Guarderò oltre le sbarre. Farò gli esercizi di respirazione, ogni giorno. Terrò in forma i muscoli.

Coltiverò la speranza. Ingoierò tutto, senza esitazione. Spezzerò il mio pane.

Sopporterò il dolore. Non mi perderò d’animo. Scriverò moltissimo.

 

Speriamo mi diano carta in abbondanza.

Io lo voglio davvero, voglio che la mia prigionia sia un racconto scritto bene, dall’inizio alla fine. Che non vuol dire un racconto senza sbavature. Anzi sono proprio le acrobazie rischiose che danno il ritmo alla narrazione. L’importante è scrivere un racconto che funzioni. L’importante è non affossarlo dentro un buco nero di disperazione, altrimenti si rischia di morirci dentro con tutta la vita non scritta, senza trovare l’uscita.

 

Troverò nel cammino qualcuno che mi ascolti. Racconterò a perdifiato, nella notte.

Guarderò gli alberi e ascolterò il vento. Non perderò mai il filo.

Combatterò col buio. Giocherò col tempo. Interromperò il racconto all’alba, sul più bello.

 

Madre mia, la via di fuga dalla prigione in cui siamo è riuscire a viverci dentro, con coscienza e stile.

Finchè avrò i miei racconti, avrò la libertà. Finchè racconterò, avrò salva la vita.

 

* * *
 
Alcuni prigionieri hanno un nome. Moltissimi restano senza.
I primi li rammentiamo, perchè lasciano qualche traccia del loro passaggio (una poesia, una lettera, un mucchio di parole da compitare nella notte per farsi forza). Gli altri sono quelli che attraversano la prigionia restando ignoti, senza che per questo meritino di essere ignorati. Nell’epistolario delle evasioni, la prima lettera è quella di un prigioniero sconosciuto: le migliaia di prigionieri senza nome che attraversano la storia umana precedono (e contengono) tutti i reclusi celebri che ricordiamo, con nome e cognome, per il loro coraggio.
 
Foto: Alessandro Melis, “Tempus fugit” (Ospedale abbandonato, aprile 2010).

Multimedia

Condividi su: