DromosFestival

[Neoneli 10.08.2017] Epistolario delle evasioni #9

Lettera di Bruce Chatwin dalla frontiera

dove si parla di tempo, di spazio e di confini

 

Mio carissimo,

dice che la prima prigione che ci tocca è il tempo: quel tic tac inarrestabile che ci rinchiude tra l’attimo in cui veniamo al mondo e quello in cui lo lasciamo. Forse è vero, amico mio, forse sì. Ma il tempo è una prigione che scompare dietro la propria apparente vastità: a poco a poco confondiamo l’abbondanza con l’infinito e ci abituiamo a non vederne il limite, se non in quei pochi momenti di illuminazione – il compleanno, l’anniversario, il ferragosto – che assomigliano tremendamente al buio. In ogni caso, ne abbiamo a sufficienza per compiere grandi cose, sempre che lo usiamo bene.

 

Invece il tempo è nulla, qui sulla frontiera.

Scompare nella noia, nell’attesa di un permesso, di un documento, di un foglio di via.

 Qui si spegne ogni voglia di volo, l’aria è guasta e la sabbia si mescola al sudore,

la divisa del poliziotto ha uno strappo, ricucito proprio sopra il cuore.

 

Amico mio, no, la vera prigione non è il tempo. La prigione più crudele per gli umani è lo spazio, lo spazio fatto a pezzi in cui obblighiamo i nostri passi, chiudendoli in zone minute – stanze, case, città, regioni, stati – delimitati da confini e muri e spine.

Tu lo sai bene, amico mio, io non so starmene quieto dentro la mia stanza. Quando sto fermo per qualche mese, mi prende un orrore del domicilio: non c’è prigione più insopportabile, per me, dell’indirizzo di residenza scritto sul documento d’identità, nero su bianco. E allora che ci faccio, ora, qui, fermo al confine? Chi mi restituirà tutto lo spazio che sto perdendo?

 

Perché lo spazio si ferma, qui sulla frontiera.

Ogni viaggio interrotto è un futuro abortito, una madre che piange un destino reso orfano.

Ogni dogana è un pugnale piantato sulla terra, ogni controllo documenti è una sentenza

è un infarto dello spazio ogni centro d’accoglienza.

 

La domanda a cui rispondere è: «perché alcuni uomini vanno girovagando, invece di starsene fermi?».

Ipotesi di risposta: L’uomo ha acquisito insieme alle gambe dritte e al passo aitante un istinto a migrare, un impulso a varcare lunghe distanze; io credo che questo impulso sia inseparabile dal sistema nervoso centrale; per questo, quando è impedito da condizioni di vita sedentarie, il bisogno di nomadismo trova sfogo nella violenza, nell’avidità, nella ricerca del prestigio, o nella smania del nuovo.

Ecco perché invece le società nomadi sono egualitarie, libere dalle cose e restie al cambiamento.

Ed ecco anche perché, nell’intento di ristabilire l’armonia, tutti i grandi maestri hanno messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio, hanno raccomandato ai loro discepoli di seguire la Via.

 

Io credo nella via del viaggio, amico mio, nella migrazione senza fine che ci rimescola il tempo e lo spazio. I confini sono la peggior prigione a cui possiamo condannare la nostra mente.

Nessuno potrà mai convincermi che un confine esiste veramente.

 

* * *

 

Bruce Chatwin è forse il più celebre scrittore/viaggiatore del Novecento. Viandante instancabile, i suoi reportage dal Sudamerica, dall’Australia e dall’Africa sono letti in tutto il mondo. Alla fine degli anni Sessanta, progettava un libro sul nomadismo come valida alternativa alla cosiddetta civiltà stanziale. Non lo scrisse mai, ma ne parla in un lungo resoconto al suo editore, Tom Maschler, da cui è tratto il brano inserito nella lettera (da Anatomia dell’irrequietezza, 1996).

 

Foto: Alessandro Melis, “I confini” (ospedale abbandonato, marzo 2009).

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