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[Nureci 13.08.2017] Epistolario delle evasioni #10

Lettera di Alda Merini al suo dottore

dove si chiarisce che ognuno ha la sua prigione

 

Mio caro dottore,

dice che questa prigionia, la prigionia chimica ed elettrica del manicomio, è una forma di protezione. È vero, il manicomio protegge l’umanità. Ma l’umanità di chi, dottore, amico mio? L’ospedale dei pazzi protegge noi, i malati, dalla vostra ferocia? O protegge voi, i cosiddetti sani, dalla vostra colpa, dalla vostra vergogna?

Un manicomio, come una prigione, non è altro che un confine. Una nazione artificiale, chiusa dal muro e dal filo spinato. Una immensa pattumiera dell’errore, della sbavatura. Si butta dentro la paura, la si rinchiude per torturarla, si butta la chiave. Ma vede, dottore, i prigionieri siete voi, siete anche voi, là fuori. Vi imprigionate da soli nella vostra dimenticanza, nei vostri pregiudizi, nella vostra scarsa fatica di accettare i colori accesi, i pianti, le scelte fuori fuoco, le urla, il gioco, il circo, le bestiacce infami e gli angeli che abitano dentro il nostro cervello.

 

Ma contro la pazzia niente e nulla possono valere. Contro la pazzia nemmeno Dio può nulla. Perché l’uomo è un cattivo soggetto. Quando trova una tortora, qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe. È così che nascono i pazzi. Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione.

 

Vedi allora che la prigione, amico mio dottore, non risparmia nessuno: essa è un regalo che Dio ha fatto a tutti quanti noi, bene inchiodata e chiusa dentro il nostro cervello. Ognuno ha le sue sbarre, ognuno la sua personale collezione di ostacoli verso la felicità. Rompere le sbarre, superare gli ostacoli è il compito che ci è dato, a me, a te, a tutti. Per questo ho pensato di mandarti un regalo, mio dottore amato. È una specie di preghiera. Pronunciala davanti alle tue sbarre, per spezzarle. Dice, più o meno, così:

 

Madre diletta, mia sognata e vera

verità, mia splendente meraviglia,

madre diffusa come l’ape e il miele

madre sostanza, tienimi nascosta

dentro il tuo manto sì che io non veda

sotterfugi ed inganni, in te io pura

ridivento, come una bambina.

Madre t’ho vista un giorno mentre prona

sul pavimento t’invocavo piano

eri bella e possente e mi guardavi

con infinita eterna tenerezza.

Io non ho parole / ma tu hai l’incanto delle cose buone,

tu hai le parole che non hanno voce

e che pure traversano le mura

d’ogni esultanza. O madre

guarda alle mie braccia

che sono vuote e colmale di fiori

o di spine, o di luce, o di tormento

come ti piaccia e rendimi felice.

 

* * *

 

Alda Merini è una delle massime voci della poesia italiana contemporanea; nella sua vita, un ruolo centrale ha l’esperienza del ricovero nell’ospedale psichiatrico (1962-1972). I testi inseriti nella lettera sono tratti da L’altra verità. Diario di una diversa (1986) e da Lettere al dottor G (2008).

 

Foto: Alessandro Melis, “La stortura” (manicomio abbandonato, marzo 2009).

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