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[Nureci 15.08.2017] Epistolario delle evasioni #epilogo

Lettera di un prigioniero ignoto a suo padre

dove si immagina una libertà a forma di universo

 

Padre mio, eccomi qui. Alla fine ci sono riuscito: è finita davvero, sono fuori.

Quanta luce, fuori. E che parola gigantesca, “fuori”. L’aria qui è limpida, il fiato fresco, le linee di fuga sono infinite, i cammini possibili sono senza numero, e lunghissimi. Che meraviglia, e che spavento. Fuori, padre mio, che paura essere qui, fuori.

Dice che alle prigioni ci si può persino affezionare. Da un certo punto di vista è davvero così: i muri e le sbarre delimitano uno spazio piccolissimo, rassicurante, dove niente è imprevisto: le grate non fanno entrare la paura del nuovo. Qui fuori invece, padre mio, qui fuori tutto è una novità, tutto da ricominciare, tutto da ridisegnare. Qui fuori la libertà è uno studio quotidiano, è disciplina di ogni istante, è un impegno senza fine.

 

Lavorerò su me stesso. Porrò domande ogni giorno. Ricorderò chi sono. Canterò nel silenzio.

Sopporterò ogni pena. Non mi perderò d’animo. Piangerò ai ricordi più belli. E sorriderò, perché sarà necessario.

 

Ora che ho varcato all’incontrario la porta del carcere, posso sentire chiaramente quanto sono cresciuto. Dice che per alcuni prigionieri la galera è come un’università: per me, è stata l’universo. In prigione la voce del muezzin canta nel buio; e il buio si fa incubo e desiderio; il volo di chi sorge ha la forma di un vetro trasparente dove la faccia sbatte per imparare a piangere; in carcere il corpo si chiude e si dischiude, come la porta della cella, senza eco o grido; in carcere si muore, riversi sul pavimento e con un fiore in bocca, oppure si vive trafitti dal ghiaccio che vendica le estati; in carcere ho visto uomini cantare con il passamontagna in pieno agosto, ho imparato il bianco di una veste che danzava sotto un arco, ho ascoltato l’umido di una gola nel bosco, che aveva colore di steppa, di lontananza e di deserto; ci sono stati giorni in cui ho conosciuto la noia, quando il suono delle parole non mi sembrava sincero; ma ho visto anche l’amicizia vera, quella che veste di bianco e suona e canta, e quando l’ascolti ti dimentichi che sei dentro un possibile cimitero; perché la galera a volte ha sbarre che si sciolgono, se impari a vedere anche quando sei cieco, a chiamare la madre che ti insegni la libertà, o il padre compagno che ti racconti le fiabe nella notte; in galera, se hai fortuna, impari il ritmo giusto, quello del cardio che batte e delle gocce che non finiscono, non finiscono, non finiscono; in galera può capitarti la malasorte di essere inghiottito nel buco nero di un orgoglio senza redenzione, ma anche la fortuna di scambiare due chiacchiere con un cervello grande e terribile. Tutto c’è, dentro una prigione a forma di universo: bisogna solo imparare ad ascoltare i pensieri biondi che danzano, gli ottantotto tasti del bianco e del nero, le parole sconosciute, le urla e il volo.

 

Non perderò la speranza. Non negherò la mia mano. Porgerò il mio bicchiere e spezzerò il mio pane.

Combatterò col buio. Giocherò col tempo. Interromperò il racconto all’alba, sul più bello.

 

Padre mio, non avere paura: la vita può essere prigione, o può essere occasione.

È l’esistenza stessa che disegna le nostre vie di fuga.

Le mie, le ho trovate sempre dentro gli sguardi e dentro le parole.

Finchè racconterò, avrò salva la vita. Finchè avrò i miei racconti, la mia libertà non avrà mai fine.

 

* * *

 

Nell’epistolario delle evasioni, come la prima lettera anche l’ultima è quella di un prigioniero sconosciuto: le migliaia di prigionieri senza nome che attraversano la storia umana si fanno coro qui, nelle parole di un anonimo. Queste parole seguono (e contengono) quelle di tutti i prigionieri che nei giorni passati abbiamo ricordato, con nome e cognome, per il loro coraggio.

 

Foto: Alessandro Melis, “Fugit tempus” (ospedale abbandonato, aprile 2010).

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