DromosFestival

[Oristano 06.08.2017] Epistolario delle evasioni #6

Lettera di John Cage al suo compagno Merce Cunningham (dalla camera anecoica)

dove si dimostra che per uscire dalla prigione bisogna ascoltarla bene

 

Amore mio,

che strano eco, ha, la parola “amore”, dentro una camera dove l’eco non esiste.

 

Da quando la porta si è chiusa – una porta che ha dentro strati e strati di porte, una più silenziosa dell’altra – da quando mi sono seduto su questo pavimento che risponde al mio corpo senza produrre neppure un decibel, non posso sentire altro che l’eco di me stesso.

Il sangue dentro le vene ha suono di fiume impetuoso, il cardio che batte, qui dentro, è un tuono.

Dice che nella camera anecoica molti non resistono più di qualche minuto: perché è insopportabile non potersi aggrappare a nessun suono familiare, e qui dentro non si sente niente. O, meglio, qui dentro si sente il niente, il potentissimo nulla da cui veniamo e dove torneremo: il nulla del nostro battito e del nostro respiro. Chi non è pronto, rischia di impazzire.

 

La camera anecoica, ora lo sento chiaramente, è una cella. Essere prigioniero o monaco qui dipende soltanto dalla forma dell’orecchio. Qui si impara a non avere alcun fine se non esattamente la mancanza di un fine. Qui si impara a meditare sul vuoto, a comporre la vita oltre la propria volontà, a organizzare il caso, a controllare l’imprevisto lasciandolo accadere.

Alea iacta est, amore mio, il dado è tratto.

Chi entra qui dentro, non può mai uscirne davvero. Porterà per il mondo il segreto di questa contraddizione, e ne farà la chiave per la libertà, andando per il mondo con tutto il proprio silenzio, contemplato.

 

Amore mio, mi hanno detto che il silenzio non è musica. Dovrebbero venire qui dentro come me, per capire che nulla è musica quanto il silenzio. 4 minuti e trentatre secondi di un musicista immobile che li osserva, e loro questo abisso non hanno voluto ascoltarlo.

 

Non hanno proprio capito la questione.

Il silenzio non esiste. Non esiste una cosa che si chiama “silenzio”.

Il silenzio, come condizione fisica, è impossibile da ottenere.

Ciò che loro hanno creduto silenzio, perché non sapevano come ascoltare, era ricolmo di suoni accidentali. Si poteva sentire il vento che soffiava, là fuori, durante il primo movimento. Durante il secondo, gocce di pioggia hanno cominciato a picchiettare sul tetto. E durante il terzo, la gente stessa produceva ogni genere di suoni interessanti, nel parlare, nel borbottare, nel fischiare, persino nell’andare via.

 

Mi hanno detto che ho voluto fare il circo, l’esibizionismo, la provocazione.

Li comprendo: è difficile accettare che la prigionia finisca solamente quando cominciamo ad ascoltarla. Difficile pensare che il suono diventi libertà solo se non lo si è mai udito prima.

 

Ma ora basta, devo uscire: qui dentro il niente rischia di farmi impazzire.

Preparati a danzare amore mio, a danzarmi il frastuono armonico del tuo corpo in scena.

Fammi sempre silenzio, amore mio, e ama.

 

* * *

 

John Cage, compositore e teorico della musica, è una delle figure baricentriche del Novecento: la musica contemporanea non esisterebbe (o sarebbe radicalmente diversa) senza le sue sperimentazioni e le sue riflessioni. All'inizio degli anni Cinquanta visita la camera anecoica dell’università di Harvard, una stanza insonorizzata ed acusticamente trattata, in cui poter “ascoltare il silenzio”. Da questa breve autoinflitta prigionia nel vuoto, ricava una consapevolezza rinnovata sul potere dei suoni. Il brano inserito nella lettera è tratto dal libro-intervista Conversing with John Cage di Richard Kostelanetz (1988)

 

Foto: Alessandro Melis, “L’attesa” (manicomio abbandonato, marzo 2009).

Multimedia

Condividi su: