DromosFestival

[Villa Verde 03.08.2017] Epistolario delle evasioni #3

Lettera di Alicia Partnoy a sua figlia

dove si racconta un’idea di libertà sotto la pioggia

 

Mia piccola,

dice che i giorni di prigionia sono tutti uguali, che è proprio questo che li rende terribili.

Non è del tutto vero: a volte la prigionia affila l’attenzione, e anche con le bende sugli occhi si diventa sensibili alle diverse sfumature del tempo.

 

Oggi per esempio è stato un giorno diverso dagli altri: la pioggia lo ha reso diverso.

Ha cominciato a piovere subito dopo il pranzo. Sentendo l’odore della terra bagnata mi sono resa conto di essere ancora viva. Ho inspirato l’aria con forza, e uno strano ricordo di libertà mi ha solleticato le ossa del viso.

La finestra aperta lasciava entrare la pioggia. Una goccia è caduta sulla mia benda, sulla mia fronte, ed è penetrata lentamente fino al cuore. Come il pane secco nell’acqua, il mio cuore si andava dilatando a poco a poco. Pensavo di piangere, quando ho sentito i passi che chiudevano la finestra.

 

Ma il tetto della Piccola Scuola è pieno di buchi.

Quando era ormai caduto un numero infinito di gocce, i passi hanno portato dei barattoli da mettere sotto le perdite. La musica più dolce che avessi mai sentito ha cominciato a risuonare sui barattoli.

 

Il barattolo numero uno era vicino alla finestra sul fondo, quella chiusa.

Il numero due accanto al giaciglio.

Il terzo proprio al centro della stanza.

Il quarto era appoggiato allo stipite della porta.

 

A un tratto ho sentito un plic, plic, plic, vicinissimo.

Ho proteso la mano, e le gocce hanno cominciato  a caderci sopra.

Ho raccolto un tesoro di cinque gocce sul palmo: cinque frammenti di freschezza e di vita, in mezzo a tutta quella sporcizia. Mi sono lavata le mani. In quel contatto con l’acqua, il primo in oltre venti giorni, ho sentito di lavarmi via un po’ dell’amarezza che si era attaccata alla mia pelle insieme alla sporcizia.

Con le gocce successive mi sono inumidita le labbra.

 

L’acqua entrava in me, piccola mia, si faceva spazio nella gola, dentro, dentro il corpo. Si faceva suono in fondo alla caverna della gola, suono armonico di vita e d’acqua, e profumo di terra bagnata, e di bosco che gridava per uscire. La prigionia a volte ci dilata, figlia mia, ci fa immensi come una foresta verdissima, che risuona di voci, voci alte che devono arrivare lontano, gridare l’orrore, spalancare lo sguardo di chi non vuole guardare. La prigionia di una sola donna, di un solo uomo, ha forse il potere di spalancare le coscienze di milioni di uomini e donne che se ne stanno ignari, là fuori? Ma loro lo sanno, che io sono qui? Qual è la vera prigione?

Quella dove stanno loro, che vedono e fanno finta di non sapere?

O quella dove sto io, che non vedo, ma so? Alla fine, ho lasciato piovere via le domande.

 

Ho dormito qualche ora, cullata dalla pioggia.

Ho sognato infusi di mate e frittelle, e finestre con cieli da guardare, senza bende sugli occhi.

* * *

Alicia Portnoy, nata nel 1955, aveva ventuno anni durante il colpo di stato militare argentino. Attivista e militante, madre di una bambina di un anno e mezzo, il 12 gennaio 1977 fu rapita e imprigionata in un campo di concentramento chiamato la Escuelita, la Piccola Scuola. Fu tenuta per tre mesi e mezzo a digiuno e bendata, picchiata, torturata. Trasferita in diverse prigioni, rimase desaparecida per due anni e mezzo, riuscendo tuttavia a far filtrare all’esterno racconti e poesie che venivano pubblicati anonimi. Mai processata, nel 1979 fu costretta a lasciare il paese. Da allora vive negli Stati Uniti. Nel 1985 raccontò la sua storia e quella di molti altri prigionieri nel libro The Little School, da cui sono tratti i brani inseriti nella lettera.

Foto: Alessandro Melis, “Dall’altra parte” (cinema abbandonato, maggio 2009).

Multimedia

Condividi su: