«Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo,
ma non per questo è facile uscirne».
Giorgio Faletti
Per il suo XIX anno di vita il Festival Dromos affronta, in linea con una scelta progettuale che da anni ne caratterizza la programmazione, un tema ostico ma di cocente attualità: le prigioni, mentali prima che fisiche, i recinti nei quali ciascuno, più o meno consapevolmente, decide di entrare fino a rimanerne sopraffatto. Il titolo Prigioni, potrebbe indurre a pensare ad Antonio Gramsci e alla sua morte, avvenuta esattamente ottant’anni fa, una morte accelerata dalla lunga prigionia inflittagli dal regime fascista e, pertanto, al carcere come interminabile e spesso fatale luogo di espiazione di una colpa o come strumento di censura e di cancellazione del libero pensiero.
Se non mancheranno approfondimenti in tal senso è pur vero che lo spirito del festival fa proprio, viceversa, l’aforisma di Giorgio Faletti che colloca, come premesso, la dimensione della cattività come condizione esistenziale, spirituale e culturale più che fisica: «Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo, ma non per questo è facile uscirne». Prigioni mentali che prendono la forma di tortuosi labirinti apparentemente seducenti, nei quali ci si perde e dai quali difficilmente si riesce a venirne fuori se non dopo un lungo percorso, spesso doloroso, di autoanalisi, presa di coscienza dei propri limiti e delle proprie paure, quelle che inducono all’erezione di quei muri, «dapprima riparo e subito prigione» (Marguerite Yourcenar).
Alla musica, anch’essa labirintica nelle sue diverse declinazioni e contaminazioni, all’arte, alla fotografia, alla letteratura e al cinema il compito di evocare tale condizione di schiavitù o detenzione che non necessita di un reato ma nella quale, spesso, ci si assuefà. E allora, allargando lo sguardo dal singolo alla società, le ricerche e le sperimentazioni estetiche ancora una volta si assumeranno l’onere di osservare folle eterodirette, apparentemente libere ma mentalmente prigioniere di pregiudizi, di fobie, di idiosincrasie, di processi interiori, sociali e culturali capaci di rendere schiavi, meccanismi messi in atto quotidianamente che finiscano per farci succubi di situazioni, di persone e di prodotti di cui ci circondiamo e dai quali veniamo avviluppati. Catene materiali e spirituali di cui non possiamo o non vogliamo liberarci, per pigrizia, per paura o perché soverchianti, ma contro le quali basterebbe riannodare quel filo rosso della coscienza critica e dell’impegno civile, troppo spesso relegati nel sottoscala della nostra ragione eppure i soli capaci di condurci fuori, finalmente, da oscuri e claustrofobici labirinti della mente … a riveder le stelle.
Ivo Serafino Fenu
(autore dell'immagine scelta come manifesto)
A Moment, 2010
Digital photos, various sizes
Juha Arvid Helminen nasce a Helsinki nel 1977, attualmente vive e lavora a Lahti, in Finlandia. Helminen si è laureato nel 2010 con un Bachelor of Arts presso l'Istituto di Design di Lahti (Lahti Univeristy of Applied Sciences) con una specializzazione in fotografia. In precedenza ha studiato progettazione grafica. The Invisible Empire del 2013 all'Hippolyte Gallery di Helsinki è stata la sua prima mostra personale. Helminem è anche ritrattista, fotografo di moda e autore di video musicali. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in Finlandia, in Colombia, in Nepal, in Francia, in Svizzera, in Germania e negli Stati Uniti d'America.
L’”Opera al nero” che caratterizza i lavori di Juha Arvid Helminen ha nobili e antiche radici: dal fiammingo Van Dick, maestro del nero su nero, fino al Goya delle “pitture nere” o delle visionarie incisioni dei Capricci, delle quali condivide l’ambientazione claustrofobica e l’incombente giudizio inquisitorio. I corpi senza corpo che abitano gli spazi – ombre che si solidificano nell’ombra –, vestono uniformi naziste che, al contempo, affascinano per la loro severa eleganza e spaventano per la loro ineluttabile e funerea impersonalità. L’estetizzazione insita in ogni prassi feticista e S/M è un rimando perturbante e ipnotico verso il lato oscuro della coscienza, metafora del buio che si annida dentro e nelle pieghe della realtà: controllo sociale e, se possibile, novelle “Sante Inquisizioni” davanti alle quali è difficile individuare vittime e carnefici.