DromosFestival

11. Acròcalo, bestia della resistenza

Beastville, 14 agosto 1968

[Dedicato a Mahatma Gandhi (1869-1948),
nel 70° anniversario del suo assassinio]

– Cosa guardi? – Mi ha chiesto a John.

– Guardo la notte, il suo colore argenteo – gli ho detto, con gli occhi conficcati nella luna. La spiaggia intanto brillava candida, come una distesa di sale. – Guardo la notte, che è una grande macchina della dimenticanza. – Così ho detto.

– E che cosa vuoi dimenticare, precisamente? – Mi ha domandato John.

– Non so – Gli ho risposto – Forse i dolori che mi hanno attraversato durante il giorno – C’era un vento delicato, che sollevava polvere di sale e ce la rovesciava addosso, come un vapore di talco, consolante.

– Forse i dolori non vanno dimenticati – Mi ha detto John – Forse la notte è una macchina per trasformarli.

– Lo so, John – Ho detto a John – Ma saperlo non significa saperlo fare.

– Forse una delle tue bestie potrebbe aiutarti – Mi ha suggerito.

– Per questo ne ho appena scritta una – Gli ho risposto – Immagina, John.

 

Immagina un animale dotato di straordinaria resistenza al dolore, capace di trasformare ogni ferita in un aculeo, e ogni aculeo in ornamento. Lo chiameremo Acròcalo. Appena nasce, l’Acròcalo ha l’aspetto di un piccolo roditore, una specie di scoiattolo dallo sguardo dolce e i gesti ingenui. Inizialmente i genitori lo accudiscono con amore e cura dentro il nido, lo nutrono e gli scaldano il sonno, ma appena è anche solo lontanamente capace di andarsene da solo per il mondo, lo lanciano giù dall’albero e si dimenticano di lui. È così che l’Acròcalo si guadagna la sua prima ferita, la sua prima cicatrice, il primo aculeo che spunta dalla pelle, proteso in fuori come una freccia contro le minacce del mondo. Da questo momento, l’Acròcalo se ne va in cerca del suo destino. Ed è così che, inevitabilmente, si ferisce e cade, e ancora un aculeo spunta dalla sua schiena. Lo morde un predatore, e su quel morso la bestiola mette fuori un’altra spina. Ogni volta che un nuovo dolore si affaccia alla vita dell’Acròcalo, esso aggiunge una nuova punta colorata alla sua variopinta e spinosa corazza.

 

Così ho detto, e ho visto che John sorrideva soddisfatto, contro il cielo candido del plenilunio salino.

– Il piccolo uomo vestito di bianco non lo sapeva, all’inizio, quello che sarebbe riuscito a fare. – Così ha detto John. E aveva negli occhi un canto, nella memoria un mito – Il piccolo uomo vestito di bianco era solo un piccolo avvocato, all’inizio. Era intimorito, in giro per i tribunali, balbettava parole fragili, sembrava una di quelle creature timide e spaurite, destinate all’ombra e alla sconfitta. Ma il piccolo uomo vestito di bianco aveva occhi per guardare e cuore pensante. Aveva dolore intorno e intelligenza da riempirci un continente. E scoprì di avere voce abbastanza per tutti quanti, anche se all’inizio nessuno lo immaginava, figuriamoci lui. È stato allora che il piccolo uomo ha iniziato a vestirsi di bianco, ha cominciato a non agire, a non fare. Gli dicevano Lavora!, e lui stava immobile, lì, bianco come il sale. Gli dicevano Paga!, e lui non pagava. Gli dicevano Questo non si fa, e lui invece lo faceva, e digiunava. Gli dicevano Ti sbattiamo in galera!, e lui rispondeva Fate pure, io non mi muovo di qui. E intanto gli altri, quelli per cui combatteva in quel modo assurdo e senz’armi, a furia di vedere quella sua forza, decidevano di imitarlo, e diventavano centinaia, e migliaia. Milioni di piccoli uomini vestiti di bianco, che combattevano con i corpi loro, con le loro parole, le azioni, i gesti. Che nonviolenza non significa stare immobili e passivi, no, significa fare, significa decidere e disobbedire, e accettarne le conseguenze, certi della vittoria. Che alla fine, i piccoli uomini vestiti di bianco vincono, niente è più certo, purchè non tradiscano il loro coraggio, purché restino fedeli alla bellezza pulita del loro disobbedire. – Così ha detto, John, mentre il vento continuava a disegnare spirali di sale nel cielo.

 

C’è una stravagante armonia, nell’acuminata livrea dell’Acròcalo. Perché nessuna delle sue spine somiglia a un’altra, eppure tutte compongono una singolare eleganza. Ogni volta, la protuberanza ossea ha una specifica forma, un ben determinato colore, e invano si è cercato di trovare corrispondenze tra la causa delle ferite e la forma dell’aculeo. Le cadute, ad esempio, possono diventare spine color fiamma o riccioli ossei di uno squillante e chiaro verderame. I morsi assumono talvolta la forma di foglie cartilaginose blu cobalto, ma anche di piccoli rametti spinosi color viola di campo. I graffi diventano placche di conchiglia madreperla, ma anche trame metalliche d’un bel rosso corallo. Infine, l’Acròcalo espone le sue ferite come rigogliosi trofei, fino a che sulla sua pelle non è rimasto più spazio per i morsi.

 

Così ho detto. E John è rimasto silenzioso, per qualche minuto, sagoma di ossidiana contro il cielo bianco.

– C’è una bellezza che non tutti comprendono – Ha detto, infine – nell’opporsi alla violenza assorbendola, senza restituirla. Ci dicono che siamo idealisti, quando va bene. Quando va male, che siamo idioti. Ma essere contro la violenza non significa ignorarne l’esistenza. Significa imparare come disinnescarla, mostrarle che essa è del tutto inutile di fronte a chi ha smesso di temerla, di fronte a chi ha accettato che il suo prezzo, qualunque esso sia, è sempre più accettabile della rinuncia a ciò in cui si crede. E allora – questo ci ha insegnato, il piccolo uomo vestito di bianco – tutto diventa possibile, ogni rivoluzione si spalanca sotto i nostri occhi. Si sconfiggono eserciti, crollano gli imperi, si inginocchiano i re. Un uomo così è proprio come il tuo Acròcalo. Vive protetto dalla sua policroma corazza spinosa, bestia multiforme della resistenza.

  

Immagine: ACRÒCALO, elaborazione grafica di A. Melis [da Ulisse Aldrovandi, Monstrorum Historia (1642)]

 

 

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