Beastville, 4 agosto 1968
– Che si fa John? – Così ho chiesto a John. Ce ne stavamo lì, nel buio della notte, sulla scogliera a picco sul mare. Guardavamo senza fine l’orizzonte d’inchiostro. Le onde erano righe a spirale, un 33 che girava perfetto, su un giradischi eterno.
– C’è solo una cosa che valga la pena di fare, qui e ora – Così ha detto John, definitivo. Poi si è tolto tutti i vestiti, l’ho visto solo per un attimo bianco come una luna estiva, e poi si è lanciato giù a tramontare nell’acqua. Ho sentito da sopra l’impatto e le bracciate svelte. Io no, io non sono riuscito a seguirlo.
Quando è tornato, era come se ogni oscurità se la fosse lavata via, aveva il volto sorridente e tremava, gocciolante nella notte fredda di velluto.
– Non sei venuto giù con me – mi ha detto, ma senza rimprovero. L’ho visto rivestirsi, le nuvole alle sue spalle erano fantasmi elettrici color fragola.
– Avevo una bestia da finire – Gli ho risposto
– E l’hai terminata? – Così mi ha domandato.
– Immagina, John – Gli ho detto.
Immagina una bestia che nasce da se stessa, come un frutto. La chiameremo Matrivio. Un occhio inesperto potrebbe confonderlo con un gatto di selva, o con una piccola volpe. Ma lo sguardo attento riconoscerà subito il Matrivio, per quella minuta escrescenza che sporge dal suo petto. Inizialmente è poco più che una piccola bolla callosa che spunta appena dalla pelliccia morbida. Ma col passare degli anni, quel grumo di carne cresce: spunta lentamente una zampina, una piccola coda, un muso, un orecchio. Finché quel confuso embrione non si mostra sempre più chiaramente come un corpo intero, un Matrivio acerbo, che resta saldamente aggrappato al corpo del genitore, da cui trae forza, nutrimento e vita.
John è rimasto in silenzio. Guardava un punto lontano nell’orizzonte alcolico della memoria. Alla fine mi ha detto: – C’è un dettaglio che ho sempre trovato bellissimo, nella storia della Rivoluzione americana. Ti ricordi? quella che inizia a Boston, con le casse di tè gettate nell’oceano (Chissà che giornate memorabili, per i pesci del porto di Boston, tutti a bere acqua salata e tè per settimane, Ha sentito, signor Merluzzo, che acqua gialla che c’è oggi, Sì, signor mio Tonno, proprio non si respira, Eh, sa, i ragazzi là sopra stan facendo la Rivoluzione, Guardi, non me ne parli, temo che ne avranno per almeno altri dieci anni. Cose così). È il 4 luglio 1776, siamo a Filadelfia. Ci sono tutti i fiori della repubblica, c’è Thomas Jefferson, c’è Benjamin Franklin lì a firmare la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, hai presente? Quella che inizia “Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami …”. È una nave che salpa, è un nuovo Stato che nasce, è una cesura della storia, bene o male che sia. Ma mi stai ascoltando? – Così mi ha domandato John. Io stavo ancora guardando i pesci di Boston, milioni di pesci che bevevano il tè nel cielo.
– Sono qui – Gli ho risposto.
– Bene – ha detto John – perché ora viene il dettaglio memorabile: dall’altra parte dell’oceano, c’è Giorgio III, re d’Inghilterra (me lo immagino che sta sorseggiando una tazza di tè, spero non quello di Boston, che a questo punto sa di tonno e di merluzzo). È un po’ annoiato, Giorgio, dalla giornata regale e oziosa di Londra, si fa portare il suo diario, prende la penna. E mentre, di là, a Filadelfia, la parte più importante del suo impero si è appena dichiarata indipendente, lui ignaro scrive queste uniche parole: “4 luglio 1776: niente d’importante accaduto oggi” – Così dice John, mentre l’aria si fa compatta e i pesci di Boston fuggono via dal cielo.
– Immagina John – gli rispondo.
Immagina il giorno in cui il piccolo Matrivio sente, per istinto, che è completo, e decide di tuffarsi via dal corpo del genitore, staccarsene con un balzo, per affrontare il mondo da solo. Il genitore inizialmente resiste. In lui combattono la volontà di trattenere a sé quello che a tutti gli effetti è un membro del suo corpo e l’istinto naturale di propagarsi, abbandonando nel mondo il figlio, distaccato. È una guerra di zampe che combattono, di unghie di genitore e figlio che si infilano nella carne, nella propria e in quella dell’altro, una battaglia cieca, dove entrambi si feriscono, entrambi combattono di desiderio e di paura e di infinito dolore. Alla fine il piccolo Matrivio prende la sua strada, è libero. Ed è allora che scorge – con un sentimento misto di nostalgia, desiderio e orrore – quella piccola, quasi invisibile punticina di carne che vede spuntare dal suo petto.
– È bella, questa tua bestia. Ci somiglia – Così ha detto John.
– A te e a me? – Gli ho domandato.
– A tutti – Mi ha risposto – Prima o poi qualcosa si stacca da noi, o noi ci stacchiamo da qualcosa. A volte avviene in modo silenzioso e lontano, e magari all’inizio passa persino inosservato. A volte invece è una battaglia in campo aperto, di denti e unghie messi lì davanti a segnare il confine, a dire: Questo sei tu e questo sono io.
– E che si fa, allora, per non ferirsi? – Così ho chiesto a John, che ora nuotava a mezz’aria, in mezzo ai pesci, nel cielo ambrato e sanguinante.
– Non si fanno rivoluzioni senza dolore, amico mio. Però si può immaginare un modo di trasformare in bellezza le ferite. Immagina di ricucirle con fili d’oro, immagina di esporle come un diamante incastonato, o di cantarle come una canzone vittoriosa. Immagina il taglio sulla pelle come una nascita, la sua pulsazione come un cuore che batte, le sue curve come le prime parole di una pagina nuova. – Così mi ha risposto. C’era un pesce americano, drogato di tè, che galleggiava ancora violaceo nell’aria densa.
Immagine: MATRIVIO, elaborazione grafica di A. Melis [da Ulisse Aldrovandi, Monstrorum Historia (1642)]